PFF
COLLEZIONI

20 Giugno
Martedì 20-06-2023
ore 17:00 - 20:00
Spazio Bianco

Il mio film

Federica Foglia

AUTORITRATTO ALL'INFERNO

Canada/Italia 2021 , 3'30''

 

Inaugurazione ore 19.00

La video-opera è fruibile tutti i giorni da mercoledì 21 giugno con orario 17:00 - 20:00

 

Programma a cura di Fulvio Baglivi, Mauro Santini, Roberto Turigliatto

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Lo spazio bianco prosegue la sua indagine sul cinema italiano di ricerca (memore dell’esperienza della sezione Satellite) proponendo due percorsi in cui analogico e digitale concorrono alla creazione di nuove forme di racconto ed estetiche, nonché etiche: Federica Foglia ed Erik Negro. L'esposizione si completa e si espande con loro film e interviste, su Rai 3 Fuori Orario cose (mai) viste, nella notte di venerdì 23 giugno.

 

Autoritratto all’Inferno è un film ibrido creato attraverso tecniche di manipolazione della pellicola sia analogiche sia digitali. Molteplici strati di film in pellicola 8mm e frammenti disparati vengono amalgamati per creare un autoritratto della regista. Un autoritratto singolare, perché ironicamente non è la regista il soggetto del film ma l’immagine ritrovata in archivi di film abbandonati, immagine di un’altra donna, sconosciuta. Il primo strato è un home-movie in 8mm del 1970 titolato Donna che balla con cane e trovato per caso in un negozio di antiquariato. Il secondo strato è un film in 8mm appartenente a un archivio ignoto, che viene interrato per qualche settimana e soggetto alla naturale decomposizione di un qualsiasi corpo organico sottoterra. In questo stato di claustrofobia, l’emulsione del film inizia a essere intaccata e alterata da batteri presenti nel suolo, coadiuvati da batteri prodotti con lievito e zucchero aggiunti dall’artista. Il terzo strato è un film in 8mm che dopo essere stato decomposto sottoterra viene ridipinto a mano dalla regista con inchiostri per pellicola. I tre strati vengono infine montati tramite sovrapposizione in digitale.

Federica Foglia è un’artista che opera tra il Canada e l’Italia. Dopo aver conseguito la laurea in Storia dell’Arte, Teatro e Cinema presso l’Università Orientale di Napoli, si trasferisce a Toronto dove consegue il titolo di Master of Fine Arts presso la York University ed è attualmente dottoranda. Si interessa di questioni d’immigrazione, identità, donne della diaspora, temporalità, in cerca di un linguaggio estetico che le possa esprimere. La sua pratica si inserisce nel contesto del cinema sperimentale materialista con una particolare propensione per il cinema tattile, riciclato, amatoriale, camera-less. Nel corso della sua carriera ha collaborato con artisti come la regista Deepa Mehta (Water), il regista e attivista John Greyson (Lilies - Les feluettes) e il regista sperimentale Philip Hoffman (What These Ashes Wanted). Attualmente sta lavorando ad un progetto che prevede lo sviluppo di tecniche analogiche ed eco-sostenibili di emulsion lifting (sollevamento dell’emulsione) con film orfani in 16mm provenienti da collezioni private e archivi di famiglia.
Le sue opere sono state esibite e premiate in numerosi musei e festival internazionali.

Da quando ho lasciato l’Italia per imbarcarmi in questo percorso oltreoceano di ricerca cinematografica, ho iniziato a interrogarmi sul come avrei potuto creare dei film che raccontassero appieno la mia esperienza migratoria. Ho provato a creare dei film lineari, narrativi, filmando la realtà che mi circondava in Canada con la mia prima Bolex, ma riguardando il girato mi rendevo conto che non riuscivo davvero a catturare nelle mie immagini la veridicità di questa nuova nazione. Quello che filmavo e quello che provavo erano due linguaggi completamente differenti. Vivevo una surrealtà fatta di frammenti sovrapposti. Tutto mi appariva spezzettato, sconnesso, le immagini del quotidiano familiare, ormai lontano, si sgretolavano sulle immagini concrete della nuova città. Solo un cinema astratto e non lineare per me poteva trasporre autenticamente quello che provavo. Volevo portare sullo schermo un’esperienza viscerale che facesse sentire, più che capire, allo spettatore cosa ho provato scollandomi dall’Italia e trovandomi decontestualizzata in un altro paese. Un cinema che cercava di parlare al subconscio, non raccontando una storia, ma comunicando un sentire. Il sentire migrante fatto di frammenti fuori contesto, come sillabe fuori posto. La riluttanza nei confronti di immagini originali girate da me mi ha spinta naturalmente verso immagini girate da altri, che potessero parlarmi di questo nuovo paese. Osservarle, ingerirle, digerirle, assorbirle e rielaborarle. Dapprima infiltrandomi tra le immagini degli archivi canadesi canonici e col tempo spostandomi verso archivi di famiglia, aste private, negozi dell’usato, rigattieri, sub-archivi non istituzionalizzati. Proprio in questo periodo credo di essermi ammalata di un’inguaribile febbre d’archivio. Immergendomi in questi manufatti storici ho iniziato a entrare in contatto con le prime pellicole analogiche in 16mm, materia viva e tangibile tra le mie mani, pellicole che mi hanno tenuto compagnia durante il lockdown e hanno fatto sì che il mio cinema prendesse una piega analogica.
Da anni ormai ho adottato questa metodologia materialista, che mi porta a lavorare direttamente sulla superficie di pellicole riciclate, scarti di film destinati all’oblio. I cosiddetti film orfani, orfani perché ormai hanno perso ogni legame con il loro creatore originale. Colleziono questo tipo di scarti vagabondi perché anche io mi sento un po’ così, in cerca di casa. Film che per causa di forza maggiore si trovano a vagare per il mondo senza fissa dimora, che si passano di mano in mano. Cerco di ricollocarli sullo schermo dal quale erano temporaneamente stati estromessi. Film ai margini a cui cerco di riassegnare una posizione predominante. Guardo all’archivio come spazio di collaborazione e in costante movimento. Non un archivio statico, dogmatico, inaccessibile ma un archivio fluido, in divenire e ridivenire. Un archivio in cui il passato e il presente non esistono in una temporalità lineare, unidirezionale o cronologica bensì circolare, atemporale e onnidirezionale. Il passato e il futuro su una linea loop continuativa, passando per il futuro tornando al passato in circolo costante, dove a ogni passaggio un nuovo significato nasce dalle immagini archiviate e de-archiviate. L’auspicio è di restituire all’artista, e prima ancora che all’artista, al cittadino il diritto di collaborare attivamente al processo di archiviazione storica, processo usualmente supervisionato da enti statali chiusi o fondazioni. Un archivio compartecipato. Lavoro in casa in maniera artigianale e intima, in questo modo riesco a stabilire un rapporto diretto con le immagini e con la materia; materia che alla fine diventa un collaboratore artistico, non importa quanto le mie mani vogliano manipolarla, dipende tutto dalla materia e da come risponderà. Provo a limitare il mio impatto sull’ambiente, prediligendo un cinema eco-sostenibile. Cerco d’interrogarmi sul mio ruolo all’interno del processo creativo e di sradicarmi dalla posizione antropocentrica che vede l’uomo-creatore al di sopra di tutto, preferendo un rapporto paritario e metabolico con gli elementi, elementi naturali che utilizzo come veri e propri collaboratori artistici: acqua, terriccio, lieviti, muffe, zuccheri, fuoco, vento, piante, alghe, e sostanze organiche di scarto. Il verbo catturare è spesso impiegato per narrare di cineasti e del loro occhio-fotografico, come per il film L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov, uno degli esemplari capolavori di tale cattura del mondo attraverso gli obiettivi della macchina da presa. Mi sento più incline verso la tradizione del cinema camera-less da Woman Without a Movie Camera prediligendo un approccio ibrido tra animazione, scultura, pittura e cinema a cui viene meno l’elemento portante dell’obbiettivo, dell’occhio che cattura il mondo circostante, in favore della mano. Se la fotocamera cattura le immagini, il film senza macchina da presa le restituisce.
Tratto queste immagini ritrovate con una tecnica nota come emulsion lifting ovvero il processo attraverso il quale si solleva a mano l’emulsione fotografica dalla base di poliestere, per poi riposizionarla su un’altra base. Col passare del tempo ho acquisito maggiore familiarità con tutti i passaggi previsti da questa tecnica e mi sono resa conto che al termine emulsion lifting mancava qualcosa. Il termine si traduce in italiano come sollevamento dell’emulsione. Certamente, il processo è quello di sollevare l’emulsione di gelatina, successivamente però l’emulsione sollevata viene innestata sulla base di una nuova pellicola. Non potendo fare a meno di notare le similitudini tra questo processo e quello dell’innesto botanico, ho iniziato a rinominare il mio processo personale emulsion grafting ovvero innesto dell’emulsione, un termine che incorpora sia l’azione di sollevamento/taglio, sia la fase finale di incollaggio. Assistiamo così alla creazione di immagini nuove, formate da frammenti inizialmente non appartenenti alla stessa pellicola, che aderiscono e diventano una cosa sola. Degli innesti che daranno vita ad una nuova varietà di pianta. Innesti di emulsione fotografica su base plastica. Proprio come la mia vita, fatta di frammenti di varie culture, posti, lingue, che sto cercando di far aderire tutti insieme su un unico supporto, questi innesti si fanno allegoria visiva del mio processo migratorio. L’archivio per me diviene un mezzo vitale per questo processo di riscrittura. Una riscrittura di me attraverso questi doni, le immagini degli altri.

Mauro Santini

La produzione artistica di Federica Foglia si muove sul confine tra arti figurative, animazione e cinema sperimentale. La sua estetica può definirsi tattile: i suoi lavori sono infatti creati a mano attraverso uno scambio simbiotico tra la pelle dell’artista e la pelle del film, la celluloide, in cui le due parti si contaminano a vicenda. I suoi quadri di celluloide in movimento si inscrivono nella tradizione dell’animazione diretta su pellicola, sulla scia dell’opera di Stan Brakhage, Man Ray, Cécile Fontaine.
Dopo i primi esperimenti digitali che ammiccano alla post-internet art, con glitch e frammenti autobiografici inseriti in un portale web interattivo, più recentemente la sua ricerca si muove in favore di un approccio manuale, scultoreo e pittorico; un processo che porta l’artista dal tecnologico-immateriale all’analogico-materiale, attraverso vecchi film in 8mm e 16mm riutilizzati per creare un racconto autobiografico.
Nelle sue prime sperimentazioni analogiche, Foglia altera strati di emulsione fotografica per mezzo di agenti chimici creando immagini velate e stratificate; in seguito, la riflessione ecologica sull’impatto ambientale del suo cinema porta l’artista ad abbandonare questa tecnica per passare a film realizzati senza l’ausilio di agenti chimici; i fotogrammi diventano “fitogrammi” perché creati tramite foglie e fiori messi a contatto diretto della pellicola, impressionata attraverso la luce del sole. L’esposizione pesarese (prima personale dedicata alla giovane artista) focalizza l’attenzione su tre suoi film realizzati con la tecnica di emulsion lifting, nelle sue varie accezioni: Currents / Perpendicolare Avanti (2021) è un collage in movimento, una sorta di pittura su pellicola realizzata con la forma bagnata e fluida di questa tecnica, in cui i colori utilizzati sono gli stessi frammenti di celluloide, dislocati a mano e riassemblati su una base di poliestere 16mm.
Skyscraper Film (2023) è una riflessione sul paesaggio urbano nordamericano, in cui l’artista utilizza una variante “a secco” della stessa tecnica: i frammenti di celluloide vengono dislocati dalla base 16mm e lavorati non più nella loro forma gelatinosa liquida, bensì in forma solida.
Autoritratto all’Inferno (2021), unico film in 8mm, è realizzato con tecniche di decomposizione della celluloide: il film, interrato per consentire ai batteri di mangiare l’emulsione, evidenzia l’effimera materialità della pellicola organica. Inoltre, la tecnica analogica dialoga in questo caso con alterazioni digitali.
Completa l’esposizione allo spazio bianco Film Negativo / Positivo (2023), presentato in esclusiva mondiale a Pesaro: contaminazione tra emulsione cinematografica e materiali organici, corpo di donna che si frammenta dapprima e poi si rimescola con insetti, piante e farfalle fino a divenire tutt’uno con la natura


TUTTE LE PROIEZIONI SONO GRATUITE