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19 Giugno

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Steven Spielberg

I PREDATORI DELL’ARCA PERDUTA

USA 1981 , 115’

La “scena del mercato”, climax narrativo del film di Spielberg-Lucas, è tratta – di peso – da questo libro [Mark Twain, Un americano alla corte di Re Artù, 1889]. Capitolo XXXIX: “Il combattimento dello yankee con i Cavalieri”. Non si svolge nel mercato, si svolge su una pubblica piazza. Il nostro semieroe (perché Twain non è che lo ami tanto), lo yankee Hank Morgan che si è svegliato nel Medioevo, deve vedersela con i noiosi, pretenziosi cavalieri di Re Artù. Ed ecco che gli si para davanti Sir Sagramor, imponente nella sua armatura, impressionante per le sue armi: “La sua spada descrisse una curva lampeggiante nell’aria”. È la fine, pensano gli astanti. Ma lo yankee del Connecticut tira fuori il revolver e bum bum, Sir Sagramor cade a terra lungo disteso, fragorosamente morto.

Dunque, nel film I predatori dell'Arca perduta non c'è solo il popolare-internazionale. C'è qualcosa di diverso. I critici che vanno al cinema per cercare la cultura possono essere soddisfatti. Qui la cultura c’è. C’è Mark Twain, che è cultura (si insegna all’Università). […] Che la si valuti da sola o la si esplori nelle sue ascendenze (e le ascendenze vanno fino ai romanzi di James Fenimore Cooper, fino a Robinson Crusoe - col fucile - sull’isola) il suo significato è certo: l’esaltazione della superiorità tecnologica dell’uomo occidentale. Ma va là, Uomo Nero, ma va là Sir Sagramor, ma va là, Sacripante, cosa credi di fare con il tuo spadone? Noi abbiamo le pistole...

[…] I libri veramente più cari, quelli che sono rimasti dentro gli intellettuali anglosassoni interpellati sono libri come Le miniere di Re Salomone di H. Rider Haggard (1855), Il piccolo Lord Fauntleroy di Frances Hodgson Burnett (1866), La primula rossa della Baronessa Orczy (1905), Tarzan delle scimmie di Edgar Rice Burroughs (1924), Beau Geste di P.C. Wren (1934). Tutti appartenenti, mi pare di capire (e di ricordare), al genere internazional-popolare, infantil-reazionario. E allora? E allora come la mettiamo? Cosa ne facciamo di queste letture, di queste immagini, di queste emozioni – infantili, reazionarie – che ci sono rimaste in cuore?

I critici che vanno al cinema alla ricerca della politica e della cultura perduta hanno la risposta pronta. Si prendono queste immagini indegne di noi adulti, e si chiudono in una cassaforte. Meglio ancora, in un'arca. Poi quest'arca la si suggella e la si butta in mare. E' una risposta coerente. Solo che non funziona come non funziona ogni risposta leninista. "Bisogna uccidere l'Oblomov che è in ognuno di noi" diceva Lenin. Bisogna uccidere il personaggio di Gončarov, famoso per la sua pigrizia. Altrimenti, come si fa a far funzionare i piani quinquennali? Detto fatto. Oblomov ha fatto finta di morire. Ogni volta che gli è parso e piaciuto è rinato ed ha fatto fallire tutti i piani quinquennali. Pensate un po': se si dovesse uccidere l'Amleto che è in ognuno di noi. Il Sancho Panza che è in ognuno di noi, il Raskolnikov che è in ognuno di noi, il Pinocchio che è in ognuno di noi, il Capitan Uncino, il Superman, il Mandrake che sono in ognuno di noi sarebbe un'ecatombe. Per di più inutile. La proposta del grande cinema internazional-popolare al quale il film di Lucas e Spielberg appartiene, mi pare molto più interessante: apriamo l’arca. Facciamo uscire fuori tutti i personaggi e giochiamoci. Con Oblomov, con Sancho Panza, con il Capitan Uncino, si gioca, si tratta così si tengono a bada. Alla scena del mercato noi applaudiamo, ma ridiamo anche: sappiamo il gioco (liberatorio) che stiamo giocando.

Beniamino Placido, «La Repubblica», 30 ottobre 1981

 


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