Film d’apertura: omaggio 40 anni dopo
Adrian Lyne, con il compianto Tony Scott, è probabilmente il più audace creatore di forme del cinema degli anni Ottanta. Fotografo di formazione (per Kevin Ayers, per esempio), ha saputo, nell’arco di una filmografia piuttosto essenziale, raccontare per forme, ossia costruzioni visive, il senso di una mutazione epocale del cinema statunitense e dell’immaginario collettivo. Lo scarto drammatico, che si consuma in soli tre anni, da A donne con gli amici a Flashdance, è clamoroso. È come se Lyne cogliesse, in forme addirittura documentarie, quella reazione del sistema nervoso al linguaggio della pubblicità e del videoclip (per prendere in prestito un’intuizione di McLuhan). Non si tratta però banalmente di imitare altri linguaggi, altrimenti non si capirebbe la differenza fra uno Steve Barron e un Russell Mulcahy (anche se su quest’ultimo sarebbe il caso di fare un discorso a parte).
È come se Lyne cogliesse – e anticipasse – il pensare ipertestuale che era ancora a venire. Da autore profondamente cinematografico, intuisce che l’immagine è diventata altro. Quindi utilizza la sua sagacia fotografica per esplorare sulla superficie dei corpi, in maniera quasi warholiana, l’attonita bellezza della stasi e delle icone post-cinema. Flashdance rappresenta una vera e propria epifania. Un passaggio di stato. Il documento visibile di come il cinema reagisce al cambio della percezione visiva in atto rendendolo racconto per immagini. Cambiando il modo di raccontare delle immagini, cambia ovviamente il mondo che attraverso di esse si narra. E non è un caso che uno dei sottotesti di Flashdance sia proprio la permanenza del lavoro manuale. Ed è con Flashdance che Lyne si laurea grande narratore di melodrammi.
Intuendo che l’ultimo prodotto di scarto dell’immagine, sempre rinnovabile e mutante, in fondo è proprio l’amore. Questa tensione, fra l’immagine e il racconto dell’amore e del desiderio, Lyne l’avrebbe continuato a esplorare sino alle sue estreme conseguenze. Flashdance – in questo senso – è l’annuncio, compiuto, di una vera e propria vocazione autoriale che avrebbe cambiato radicalmente il modo di pensare e immaginare il cinema.
Giona A. Nazzaro
Flashdance ha riconfezionato il sogno americano per le donne di colore in un’epoca in cui non era per niente ovvio farlo. Con Joe Biden mutato nell’archetipo del “lavoratore che è riuscito bene”, l’attenzione è nuovamente rivolta all’anima operaia della Pennsylvania, uno Stato da sempre associato alle acciaierie, con Pittsburgh – dove è ambientato Flashdance – che ha ancor oggi il soprannome di Steel City nonostante le fabbriche siano ben lontane dai confini cittadini. Tuttavia nel 1983, con gli echi della crisi dell’acciaio fin dagli anni Settanta, l’industria era ancora abbastanza diffusa da offrire una relativa credibilità al personaggio interpretato da Jennifer Beals, un’operaia di nome Alex Owens. [...] Non mancano ad Alex le occasioni di mostrare il culo per i soldi, letteralmente (immortalato nella famosa scena con la cascata d’acqua all’inizio del film). Anche l’essere associato a una certa fama erotica per il regista Adrian Lyne sarebbe cominciato con Flashdance, nonostante rispetto ai film successivi Jennifer Beals che si sfila il reggiseno con ancora addosso
la maglietta sembrasse un gioco da bambini, se si confrontano 9 settimane e 1/2 e Lolita. Allo stesso modo uno degli autori della sceneggiatura (scritta con Tom Hedley), Joe Eszterhas, avrebbe continuato su questo filone, compresi Basic Instinct e Showgirls. [...] L’idea per la quale Flashdance sia uscito in sala in un periodo in cui veniva rimesso sul mercato il concetto di sogno americano non è priva di dicotomie. Perché gli anni di Reagan sono stati un periodo di grandi discriminazioni per le donne di colore, semmai dimenticassimo l’uso aggressivo che faceva il presidente dell’espressione welfare queen, per non parlare della sua definizione dello stato sociale in America come “agente e consolidatore dell’assistenzialismo”. D’altro canto
la cultura pop sembrava voler assicurare le classi non bianche e non agiate degli Stati Uniti che non tutte le speranze erano perdute, anche se il governo e la società nel suo insieme le avevano ancora una volta apertamente ripudiate. Jennifer Beals in Flashdance annunciava la “promessa” in base alla quale il “sogno americano” poteva veramente essere alla portata di tutti (con l’invisibile asterisco a lato di questo “tutti” stante a significare le persone con almeno una goccia di “patrimonio genetico bianco”), e non solo degli yuppie nati con un fondo fiduciario.
Genna Rivieccio, «Culled Culture», 9 novembre 2020
C’è qualcosa di speciale in quei film che sembrano capsule del tempo ma che in nessun modo o forma reggono veramente alla prova del tempo. Mentre si può senz’altro mettere in discussione il nostro amore e ammirazione per essi attraverso uno sguardo moderno, continuiamo a non considerarli brutti film, soprattutto visto che l’arco di tempo intercorso ci fornisce anche un’interpretazione di questo attaccamento. L’aspetto più interessante è confrontare la data di uscita originale con altri classici dello stesso decennio, rendendosi conto che è stato questo titolo a spianare la strada agli altri. Stiamo naturalmente parlando del classico della Paramount datato 1983, Flashdance, un film che fra le altre cose ha una delle migliori colonne sonore di tutti i tempi e un alto potenziale di intrattenimento, anche soltanto come
prodotto della sua epoca.
Justin Waldman, «Elements of Madness», 8 aprile 2023
sceneggiatura
Tom Hedley, Joe Eszterhas
fotografia
Don Peterman
montaggio
Walt Mulconer, Bud S. Smith
musica
Giorgio Moroder
interpreti
Jennifer Beals, Michale Nouri, Lilia Skala, Sunny Johnson, Kyle T. Heffner
TUTTE LE PROIEZIONI SONO GRATUITE