PFF
COLLEZIONI

23 Giugno
Venerdì 23-06-2023
ore 15:00
Teatro Sperimentale - Sala Grande

Il mio film

Simone Rovellini

UNA VITA IN CAPSLOCK

Italia 2018 , 3'21''

Una vita in capslock - M¥ss Keta

Incontro con l’autore a cura di Luca Pacilio

  

MILENA GIERKE crediti Martin Schoeller

Simone Rovellini (1986) è un regista di origini piacentine che vive e lavora a Milano. Dopo gli anni di formazione accademica ha orientato la sua produzione verso il web, realizzando video virali come la serie Exploding Actresses. Per alcuni anni ha collaborato con la rivista «Toiletpaper Magazine» di Maurizio Cattelan e nel 2013 ha fondato il collettivo Motel Forlanini, conosciuto principalmente per aver creato il personaggio di M¥SS KETA, che ha portato nell’immaginario collettivo la club culture milanese. Lavora a cavallo fra vari campi, dalla pubblicità, all’arte e alla musica, privilegiando il web come mezzo di espressione. Insegna videoarte alla Nuova Accademia di Belle Arti e presso la fondazione Pistoletto.

 

Luca Pacilio

Nel panorama videomusicale italiano la tua videografia è un’oasi di originalità che, anche quando guarda a generi tradizionali, lo fa per reinventarli, ridefinirli. Come hai iniziato?
Avevo girato un cortometraggio, C’est la vie, diverso dai video musicali successivi, un’opera che ho impiegato anni a completare perché messa a punto in maniera solitaria, occupandomi di tutto, scovando oggetti, rovistando negli armadi di mia nonna. Quando mi sono trasferito a Milano ho iniziato a frequentare ambienti nuovi e stimolanti e, avendo conosciuto art director e scenografi, ho compreso che l’estetica dei miei lavori poteva essere curata da persone che, avendo maturato un gusto e una cultura nel campo, si occupassero specificamente di quell’aspetto e
fossero in grado di operare scelte forti.

I tuoi primi lavori si rapportano alla realtà per come rimandata dalla televisione, da Internet, dai brutti video di YouTube, dai contributi fanmade o dagli slideshow. Erano dei video-collage che giustapponevano frammenti di varie sottoculture. Come sei arrivato a questo immaginario kitsch così definito e articolato?
Quello che confluiva nei miei video era il risultato della cultura dei club che frequentavo a Milano e del lavoro che ho svolto per realtà come «Toiletpaper Magazine», un’esperienza che ha cambiato il mio modo di raccontare l’immaginario pop e che credo abbia reso il mio lavoro più sintetico, meno massimalista.
Fondamentale per me è stato frequentare il Glitter Club: lì in discoteca, ogni sabato sera, c’era un live show che omaggiava, con un’attitudine che definirei punk più che kitsch, il fenomeno culturale della settimana, un’esperienza fondamentale che penso abbia formato la mia estetica nelle sue manifestazioni più dissacranti.

In Retina fai una cosa che ritrovo molto nei tuoi lavori: prendi un apparato retorico – quello legato alla rappresentazione del sesso sado-maso e delle tossicodipendenze - e lo ribalti applicandolo a un ambito che con esso si pone in forte contrasto, quello dei pupazzi infantili.
Quella è la vera collezione di orsetti di quando ero bambino e, in qualche modo, quel video mi sembra una dimostrazione di affetto nei loro confronti. È semplicemente un modo diverso di giocarci: con il solito gruppo di amici ci veniva automatico trasferire il nostro umorismo spinto e “sbagliato” dentro un videoclip: il risultato ovviamente è un’iperbole.

Siete stati dei pionieri, perché lanciavate in rete dei contenuti che nascevano da un’esigenza creativa che non era legata strettamente alla promozione di un brano musicale, distanziandovi dalle logiche tradizionali del videoclip.
Quei video li avremmo fatti in ogni caso; c’era internet, c’era Facebook e noi usavamo quei canali per proporre le nostre cose. Ci veniva molto naturale usare questo tipo di mezzi e proporci in quella chiave.

E hai portato nel videoclip italiano un immaginario queer, qualcosa che, in quell’ambito, non si era mai visto, non in quel modo. Ne eri cosciente?
Non so quanto ne fossi cosciente nel momento in cui quella era la vita che stavo facendo: era il mondo in cui vivevo e da lì nascevano le cose che raccontavo. Il collettivo era queer, faceva cose queer, frequentava posti queer.

Quello di M¥SS KETA era un progetto in cui canzone e video erano paritetici: clip e brano si muovevano nella stessa direzione.
Per M¥SS KETA le dimensioni erano tre, perché alla canzone e ai video si aggiungeva il live: tutto stava insieme. Musica elettronica, per esempio, era il primo video dell’EP L’angelo dall’occhiale da sera e il lancio era stato una mostra-evento in una galleria d’arte, una sorta di allestimento in cui, oltre a proiettare il video in anteprima, esponevamo alcuni elementi scenografici del video e cimeli dei nostri primi lavori.

Le commissioni aprono un nuovo corso nella tua produzione. Penso innanzi tutto a Inuyasha di Mahmood.
Probabilmente nei miei lavori successivi manca quello spirito politico che animava i lavori con KETA, ma a me il discorso puramente registico interessa moltissimo. Mi trovo a mio agio nel raffrontarmi con il mondo che appartiene al musicista e a trovare in esso una mia strada espressiva: il mio approccio cambia radicalmente a seconda della persona con la quale collaboro, sono in grado di fare cose completamente diverse, mi adatto alle situazioni e alle caratteristiche del progetto.
Inuyasha è uno dei primi video italiani in cui viene usata la virtual production, tecnologia che fa incontrare mondo fisico e digitale con eccezionale fotorealismo. Non so se considerare questo un video su commissione perché in qualche modo con Mahmood ci siamo trovati senza passare attraverso agenti o case di produzione, ed è stato bello avere uno scambio così sincero. E ancora una volta è stato stimolante coordinare i diversi apporti creativi che convogliavano in quel lavoro. Il mio compito da regista è dare concretezza e vita all’idea che viene portata sul piatto: è lì che entrano in gioco il mio stile e la mia capacità. Slogan di Clod, per esempio, è uno dei progetti di questo periodo a cui sono più legato, perché è nato dalla nostra volontà di creare qualcosa di bello, in libertà. Un esempio di video commissionato dalla casa discografica di cui sono felice è Makumba, nato dall’idea del manager di Noemi di fare una sorta di cinepanettone estivo. Carl Brave è bravissimo a mettersi in gioco e lui e Noemi hanno una bella chimica: ci abbiamo costruito attorno una storia stile Vanzina.

Ciao Ciao di La rappresentante di lista è un video da 50 milioni di visualizzazioni. È il video più visto che ho diretto e, paradossalmente, quello che sento meno mio, perché mi è arrivato con un pacchetto praticamente già chiuso: ho messo a disposizione il mio mestiere con un margine di manovra ridotto. Ci siamo divertiti a girarlo e credo che funzioni bene, ma gli preferisco Diva, il video successivo che ho girato per loro, anche perché avevo raggiunto un’intesa maggiore con Veronica e questo secondo me si avverte.

Per chiudere, hai mai pensato, come tanti videomaker, al clip musicale come a un possibile viatico per il cinema?
Ho sempre pensato al cinema come a un traguardo da raggiungere ed è in questa direzione che sto lavorando attualmente.

 


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