PFF
COLLEZIONI

26 Giugno
Sabato 26-06-2021
ore 15:30
Teatro Sperimentale - Sala Grande

pff2021 cover flamingo

Uolli

FOCUS UOLLI / Mother - Flamingo

2019 , 5' 21''

 

RETROSPETTIVA UOLLI – Programma:

Il tempo più importante – Amari (2012) 3'20''

Estate - Meg (2013) 4'56''

Mambo Reazionario - Brunori Sas (2014) 4'10''

Fall - Populous (2014) 4'26''

Farsi Male - Zibba e Nicolò Fabi (2015) 3'28''

Imperfezione - Meg (2015) 4'40''

Un giorno come gli altri - Sinfonico Honolulu (2015) 3'34''

Occhi d’oro - Meg (2015) 5'45''

Like A Glass Angel - Max Casacci & Daniele Mana (2016) 3'59''

Sdims - Yombe (2016) 3'43''

Parentesi - Meg (2017) 3'55''

Don’t Stop Me - Bowland (2018) 3'13''

Mother - Flamingo (2019) 5'21''

Intervista di Luca Pacilio

Cosa ti ha fatto decidere di diventare un videomaker?
Premesso che ho un background da grafico pubblicitario che ha iniziato ad appassionarsi all'animazione, per poi approdare al mondo dei videoclip e degli spot pubblicitari, fin da piccolo ho sempre e solo desiderato diventare un regista di video musicali. Altre forme audiovisive non mi hanno mai interessato.

Non sei un videomaker che vede nella videomusica un trampolino per approdare al cinema, insomma.
Al cinema non ho mai pensato, mi piace la forma breve, la sento molto mia. Sono stato un musicista elettronico e il primo video l’ho realizzato per la mia band: un po’ quello che è accaduto a Michel Gondry, che ha iniziato girando video per il suo gruppo Oui Oui. Il mio nome d’arte riprende proprio quello che avevo da musicista. Tornando al cinema, ho lavorato per anni in una sala, vedendo di tutto, fino a farmene quasi un po' nauseare. Film che mi hanno sicuramente nutrito e che hanno stimolato un occhio registico, ma non credo che i miei video siano particolarmente cinematografici. Li vedo, piuttosto, come dei giochi metafisici.

Nei tuoi video associ concetti molto densi a una riconoscibile leggerezza di tratto: arrivi in profondità, giocando con elementi semplici e quotidiani.
È nel mio carattere: non paleso troppo il senso dell’opera, preferisco creare sottigliezze e molti strati di lettura. Ma anche nella complessità, mi piace far arrivare un’idea di leggerezza e semplicità.

In Il tempo più importante degli Amari, evidenzi col movimento un solo dettaglio, congelando il resto dell’immagine. Il discorso cronologico diventa relativo e alludi a quel concetto del “tempo importante” di cui parla la canzone.
Gli Amari hanno capito che avevo colto il senso del testo e che ero la persona giusta per raccontarlo. All’epoca il cinemagraph era appena emerso, si trovava qualche gif online ma non era una tecnica così famosa come lo è oggi: nel 2021 un video in cinemagraph suonerebbe desueto. Volevo congelare degli attimi particolari della quotidianità, niente di epocale o cinematografico, momenti normali. Oggi che il tempo si è congelato per tutti, questo video assume un nuovo significato; non è un caso che sia stato riscoperto e postato sui social da tante persone.

Usi spesso elementi sovrannaturali, ma anche in quel caso il tuo rimane un approccio paradossalmente realistico, di innaturalezza che definirei “possibile”.
Mi piace creare mondi che possano anche esistere, metto in scena spazi in cui a me per primo piacerebbe vivere. Dei piccoli nidi. Non stravolgo la realtà, perché a me piace osservare il mondo: è il mio sguardo che lo vede in modo diverso. Mi piace alterare un paesaggio, guardarlo da altra prospettiva, aggiungerci qualcosa che apparentemente non c'entra nulla, lasciando che il contesto rimanga reale. Non potrei mai fare un video totalmente artefatto, in animazione o in 3D: amo mescolare realtà e finzione. Questo approccio nasce anche dalle mie origini: sono un ragazzo di provincia, vivo in una terra abbandonata da dio e dagli uomini; la noia ha avuto un ruolo forte, mi ha spinto a vedere le cose di ogni giorno con occhi sempre diversi, a inventarmi dimensioni alternative, mondi che non esistono.

La tua “realtà magica” si collega alle tecniche alle quali ricorri. In Fall per Populous, per esempio, c’è il conflitto tra un contesto naturale, fortemente connotato, e un avvenimento fantascientifico, per il quale, ancora una volta, ricorri a un’effettistica elementare.
Per quel video pensavo a Sometimes, un clip dei Pleix per Kid606 in 3D, con questi edifici che si sbriciolavano: volevo riprodurre un effetto simile, ma nella natura, con pezzi di carta nera che andavano a comporre delle immagini misteriose, simboliche, o dirette a narrare una storia. Avrei potuto farlo facilmente in 3D, ma volevo vedere davvero quei pezzettini che volavano, farlo accadere fisicamente, non al computer. Che è poi quello che cerco nei miei video: entrare nel mio mondo, non realizzarlo semplicemente in post-produzione, anche se questo vuol dire faticare mille volte di più. Così ho usato vetri trasparenti antiriflesso ai quali ho attaccato pezzettini di carta nera, creando un'immagine a mo’ di puzzle, attaccandoli a malapena, in modo che con un soffio di vento potessero volare via. E poi ho girato tutto in reverse.

Ho più volte scritto che tu, come Michel Gondry ieri e Oscar Hudson oggi, parti da una concezione etica della tecnologia. La tecnica scelta è sempre al servizio del disegno generale, di ciò che vuoi esprimere, non è mai un orpello per sorprendere lo spettatore.
Non potrei mai fare un video basato semplicemente su una tecnica o su una furbizia visiva. Sono un maghetto con After Effect, potrei usare qualunque tecnica per imbrogliare tutti, ma l'artigianalità dei video mi piace ancora tanto. Insegno animazione, ma voglio usarla nei miei progetti solo se non scavalca l'idea e non la sovrasta.

In questo senso uno dei tuoi video più teorici è Occhi d’oro per Meg, in cui fai un discorso meta-tecnico: mentre sembra che fai uso di un green screen, in realtà stai usando dei semplici specchi e tutto avviene in camera. E poi sveli che la cosa è più complessa di quel che appare.
Anche quando ho usato la post-produzione digitale l’ho sempre esplicitato: in Sdims si salgono delle scale invisibili, in green screen, e io scelgo di mostrarle per qualche attimo. Tornando a Occhi d’oro, anche per me è un manifesto. Tanti ancora pensano che sia un video realizzato in green screen, nonostante ci fosse lo svelamento del campo e quindi la dichiarazione della tecnica usata.

È come se tu dicessi: posso farlo in modo più semplice ricorrendo a effetti digitali, invece ricorro a puri effetti fisici perché voglio scardinare l’atteggiamento dello spettatore che tende a dare tutto per scontato. Lo porta di nuovo a interrogarsi, a quella domanda che, in tempi di CGI - che rende tutto possibile - non si pone più nessuno: “Come ha fatto?”.
Tocchi un tasto sensibile: all’epoca, quando guardavo i video di Gondry, mi ponevo sempre quell’interrogativo: «Come ha fatto? Che tecnica ha usato?», perché sapevo che non stava usando il 3D. Ancora oggi se riguardo alcuni suoi clip mi rifaccio questa domanda. E nel mio piccolo, con gli scarsi budget a disposizione – perché non ho mai avuto più di 7000 euro a disposizione per fare i miei video - voglio proporre qualcosa di questo tipo, spingere lo spettatore a interrogarsi sul modo in cui il lavoro è stato realizzato.
Oltretutto ho una visione molto nobile di questo mestiere, quando mi arriva un brano (se mi piace) lo ascolto fino allo sfinimento per poterci entrare a pieno, lo carico in auto, parto verso le mie montagne, lo ascolto 70 volte, mi isolo e ci ragiono a mente sgombra, senza contaminazioni.

I limiti imposti della pandemia - come le obstruction di Lars von Trier - sembravano sollecitare per i video l’inventiva e la ricerca. Invece hanno condotto solo all’ennesima formula. Come hai vissuto da spettatore e regista questa fase?
Durante la pandemia ho proposto ad alcuni musicisti elettronici internazionali dei video a distanza, non di semplice animazione: qualcosa che sfruttasse e sperimentasse tecniche diverse. Non il solito video con la gente collegata su Skype, insomma, ce n’erano in giro anche troppi. Stavo per realizzarne uno per Pantha du Prince poi non se n'è fatto nulla. Avevo una bella idea che non rivelo perché ho ancora intenzione di utilizzarla. La cosa che maggiormente mi ha colpito di questo periodo, è che tutte le limitazioni – di spostamenti, budget eccetera – anziché restituire opere più semplici, ma con un’urgenza creativa interessante, portavano al solito piattume. L’ho trovato quantomeno strano.

Parentesi di Meg per me è il video italiano più importante del decennio scorso. In quel lavoro ribadisci la tua cifra analogica e artigianale, combinandola a tecniche più sofisticate, e dai una veste visiva alle sonorità elettroniche del brano.
Con Meg, un’artista che ha subito creduto in me, avevo già lavorato per tre video: questa volta voleva qualcosa in cui risaltasse di più la sua personalità, in cui io venissi fuori un po' meno. L’ho fatto attraverso un lavoro lunghissimo in cui ho fatto tutto da solo: volevo qualcosa di più curato e raffinato. Alla fine facendo venir fuori lei, è emersa anche la mia impronta, il mio tocco di magia, un po’ fanciullesco: è stata una sintesi perfetta. In particolare, per rendere l'elemento del viaggio - che è determinante nella canzone -, ho pensato a dei visori view master anni ’80. E da lì ho cercato di sposare le tecniche più moderne delle gif animate alla wiggle, dove il soggetto è ripreso da due camere che hanno punti di vista diversi. Ma ancora una volta la scelta della tecnica è strumentale al discorso narrativo, ne consegue. Non ho mai pensato: adesso faccio un video in After Effect o con gif animate. Volevo solo realizzare un viaggio partendo da un’ambientazione metafisica.

Dal tuo lavoro emerge un’idea di autorialità che in un campo compromesso col mercato come la videomusica non è affatto scontata. Quanto sei stato libero nel tuo lavoro?
È sempre stato abbastanza facile ottenere carta bianca. Non pretendo di vivere di video musicali, avendo già un lavoro che mi garantisce la sopravvivenza. Quindi non accetto compromessi, mi affido ad artisti e proposte che mi garantiscano la libertà che cerco, tanto che potrei farti un elenco lunghissimo di occasioni perse.

Chi sono i tuoi videomaker preferiti?
Sono un po’ old school da questo punto di vista. Quindi il primo nome che ti posso fare è Zbigniew Rybczyński: è partito tutto da lì, per poi approdare a Michel Gondry, Chris Cunningham, Spike Jonze, Koichiro Tsujikawa, di cui ero un grande fan negli anni ’90. Dell’ultima generazione apprezzo molto Canada, Romain Gavras, Megaforce e molti altri.

Ti dò la possibilità di lavorare con un artista a tua scelta: chi scegli e perché?
Mi piacerebbe fare un video per i Beach House. Hanno una cosa che mi appartiene tanto: cercano di essere senza tempo. Sono lontani da qualsiasi moda, dal suono attuale, dalla furbizia, dal marketing. Scrivono melodie meravigliose, accompagnate da questi tappeti sonori che sfuggono alle epoche. Con loro farei un video davvero eterno.

 


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