Alla presenza della regista e dei curatori Rinaldo Censi e Federico Rossin
Tutto qui
Film, 12’, 16 mm, colore
Prod. BnF / Anna Marziano
Italia/Francia 2022
Al largo
Film, 61’, Super8, 16mm, bianco e nero / colore
Prod. Anna Marziano, con il sostegno della Senatsverwaltung für Kultur und Europa
Italia 2020
Au-delà de l’un
Film, 53’, Super8, 16mm, bianco e nero / colore
Prod. Anna Marziano, Spectre Prod. and Joon Film , in collaborazione con il Goethe-Institut Max Mueller Bhavan e CNC (Francia) Aide à l’innovation audovisuelle
Italia/Francia/Germania 2017
Orizzonti orizzonti!
Film, 12’, 16mm e video, bianco e nero / colore
Prod. Teatri del Vento
Francia 2014
Variations Ordinaires
Film, 48’, video e microscopio, bianco e nero / colore
Prod. Anna Marziano, co-prodzuione Le Fresnoy,
Italia/Francia 2012
Installazione: Prod. Le Fresnoy,
Francia 2012
De la mutabilité de toute chose et de la possibilité d’en changer certaines
Film, 16’, 16mm, bianco e nero / colore
Prod. Le Fresnoy
Francia 2011
La Veglia
Film, 2’, Super8, bianco e nero / colore
Prod. Anna Marziano
Germania 2010
Mainstream
Film, 25’, video, colore
Ateliers Varan
Francia 2009 (con Dan Perjovschi)
Anna Marziano nasce a Padova nel 1982 e si appassiona presto alla musica, alla fotografia analogica, alla letteratura e alla gioia del pensare. Frequenta vari corsi di teatro sperimentale a Padova. Le visioni cinematografiche e una forte attitudine nomadica si affiancano agli studi in Scienze Politiche.
Nel 2003 si trasferisce a Roma e si forma come direttrice della fotografia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove insegnano Giuseppe Lanci (direzione della fotografia) e Luigi di Gianni (regia documentaria). Successivamente si sposta in Francia e si diploma in regia documentaria presso gli Ateliers Varan (Parigi), dove incontra Marie-Claude Treilhou, Yves De Peretti e Leonardo di Costanzo. Con il sostegno del Fresnoy - Studio National realizza Della mutevolezza di tutte le cose e della possibilità di cambiarne alcune (2011) e Variazioni ordinarie (2012), film che vengono mostrati in vari festival e spazi artistici internazionali. In Italia i suoi primi lavori vengono mostrati daL Torino Film Festival, Nomadica, Avvistamenti (Bisceglie), Centro Nazionale del Cortometraggio.
Anna Marziano sperimenta con varie camere analogiche e con le immagini microscopiche, occupandosi integralmente della concezione e della produzione dei suoi lavori, realizzandone personalmente l’audio, la fotografia e il montaggio.
Nel 2013 si trasferisce a Berlino. Con il sostegno del Goethe-Institut viene invitata alla residenza bangaloREsidency, nel sud dell’India, dove inizia le riprese di Al di là dell’uno (2017) che verrà poi girato anche in Francia, Germania, Italia e Belgio.
Durante la preparazione e le riprese dei film Variazioni ordinarie e Al di là dell’uno, Anna Marziano realizza due installazioni omonime, presentate rispettivamente al Fresnoy-Studio National e al Goethe-Institut Max Mueller Bhavan.
Tra il 2016 e il 2020, grazie al sostegno del Berliner Senat, realizza e monta il film Al Largo (Premio Speciale della Giuria al Torino Film Festival).
La prima retrospettiva dei suoi lavori è stata presentata nel 2019 al Volksbühne (Berlino) e al Wolf Kino (Berlino).
Nell’inverno 2020-2021, durante la residenza presso la Bibliothèque nationale de France, realizza Tutto qui, lavorando a distanza con gli archivi digitali della BnF nel periodo dei lockdown.
I suoi film sono conservati presso la Cineteca di Bologna e la Cineteca Nazionale e sono visibili su piattaforme online come MUBI, DAfilms, TËNK.
Vive attualmente a Padova e a Berlino.
A cura di Federico Rossin
Qual è la tua formazione?
Sono cresciuta in una famiglia con grandi differenze al suo interno, dove circolava un clima di curiosità reciproca. Volente o nolente, il grigiore della provincia padovana è stata una grande scuola dove far presto i conti col nichilismo e allenarsi a raggirarlo. Sono stati importanti alcuni insegnanti e compagni durante gli anni del liceo; il tentativo (sempre rinnovato) di praticare una cittadinanza attiva (da cui poi gli studi in Scienze politiche); l’ascolto della musica a cui mi ha introdotta Vincenzo Martorella (Jazzit). Eppoi la forza sprigionata dalla materia: il mare, le rocce, l’Etna, i corpi, l’asciuttezza calorosa del legno. E la pellicola fotografica… Ricordo bene quel senso di agilità e di pienezza che ho provato quando ho scoperto la fotografia analogica: la gioia di poter vagare per le strade e tra la gente, il piacere di sviluppare e stampare in garage, osservare alcune immagini che mi interpellavano cocentemente... Eppure la fotografia statica mi mostrava anche i suoi limiti: ero alla ricerca di forme in cui si potessero associare più fluidamente le parole e le immagini, il pensiero e la musicalità. Trovavo nel cinema un possibile luogo dove coniugare il poetico e il politico. In particolare mi ritrovavo nella frugalità di un certo cinema documentario.
Mi sono iscritta al Centro Sperimentale a Roma dove mi sono formata come direttrice della fotografia e dove ho incontrato Luigi Di Gianni (regia documentaria), Giuseppe Lanci (cinematografia). Nel 2009, trasferitami a Parigi per un corso di regia documentaria agli Ateliers Varan, ho sentito di aver finalmente trovato il mio strumento – la cinepresa – grazie all’accompagnamento di Marie-Claude Treilhou e Yves de Peretti.
Ho trascorso un anno d’oro al Fresnoy - Studio National a Roubaix, in compagnia di artisti, amici e colleghi di passaggio; poi è stata la volta di un’immersione nel cinema sperimentale in Canada, nel Sud dell’India; un lungo pezzo di vita a Berlino, la fortuna di alcuni scambi – anche brevi – durante le residenze o le proiezioni… E negli ultimi sei anni ci ha pensato mia figlia a formarmi!
Quali sono i tuoi riferimenti cinematografici e artistici più determinanti per il tuo lavoro?
La freschezza vitale dei film di Agnès Varda, Johan Van der Keuken, Margaret Tait. La poesia dei film di Jean-Daniel Pollet, Bruce Baillie, Artavazd Pelechian, Jean Painlevé. L’intensità di Toute une nuit di Chantal Akerman. Alcuni lavori di Straub – Huillet, di Peter Watkins, di Jean Rouch che portano dritto ai tentativi più recenti di arte e teatro partecipativi. I film di Abbas Kiarostami dove è evidente che le categorie di finzione e documentario non tengono. La ricerca sonora di Luc Ferrari. Le performance di Francis Alÿs. Ecc. Ecc. Ecc.
Fin dal tuo primo mediometraggio – Variazioni ordinarie – hai scelto la via del saggio filmico. Cosa ti evoca questo sostantivo e perché questa scelta stilistica?
Trovo che Della mutevolezza e Al di là dell’uno siano più esplicitamente connessi alla forma del saggio filmico, almeno nelle mie intenzioni è andata così.
Mentre preparavo Variazioni ordinarie ragionavo sul come parlare fuori dalla mia lingua materna, con le parole degli altri. Ragionavo sul come riuscire a dare forma all’interdipendenza singolare-plurale. Avevo letto e digerito varie riflessioni sull’arte partecipativa espresse da Claire Bishop. Immaginavo una forma filmica leggera, sulla scia di News from Home di Chantal Akerman, ma cercavo qualcosa di più impersonale che ritrovavo nelle pagine de Le onde di Virginia Woolf.
Nell’espressione letteraria amo alcuni testi non categorizzabili, in cui si fondono il pensiero e la poesia. A lungo ho prediletto saggi e poesia e provavo un certo disinteresse verso la forma narrativa che ora invece sta inaspettatamente diventando una fonte di vero stimolo.
Un'altra forma artistica che i tuoi lavori evocano meta-linguisticamente è quella del collage: come lavori, come assembli le sequenze? Qual è il ruolo della messa in scena?
I tuoi film, e non solo per i temi importanti e gravi che toccano, evocano la struttura del pensiero umano: ed è sempre un pensiero aperto, analogico, in movimento. Come lavori per legare tra loro associazioni, riflessioni e sensazioni?
Mi sento molto vicina alla forma aperta del collage. Quando penso al film durante la sua preparazione – ovvero quando cerco di essere il più vicina possibile al nucleo incandescente della necessità che lo fa sorgere – penso al film come a un collage dinamico, fedele ai movimenti del pensiero nel suo incontro-scontro col reale.
Quando lavoro al montaggio del film, monto il materiale filmico come una composizione musicale, dove valgono le relazioni interne al materiale.
Mi piace lasciare che i momenti si addensino nell’esperienza filmica: nella Mutevolezza ho addirittura ecceduto in ermetismo e nei lavori successivi ho cercato di trovare un modo che restasse più aperto. In certi film lavorare questo impasto mi è sembrata una lotta (Della mutevolezza, Al di là dell’uno) e in altri più una danza (Orizzonti orizzonti!, Variazioni ordinarie, Al largo).
Pur essendo stata inizialmente attratta dal “documentario d’osservazione” ne ero spesso frustrata: a volte, nonostante la giustezza delle intenzioni, mi stancava la consuetudine del partire dal singolo per andare all’universale. E qui torniamo al mio interesse per la forma del collage e per uno spazio filmico capace di tenere assieme – allo stesso tempo e sullo stesso piano – un’eterogeneità viva.
La messa in scena è dichiarata e anche questa deve avere una sua immanenza: per esempio in Variazioni ordinarie mi domandavo come lo scambio tra i partecipanti potesse avere già senso in sé e non essere solo orientato al fine di realizzare un’installazione o un film, altrimenti si sarebbe trattato di un gesto sterile. Oltre all’aspetto pittorico (pasta dell’immagine, luce, composizione), direi che mi interessa andare all’incontro di una persona o di un gruppo proponendo delle circostanze (una lettura, un momento d’ascolto, una domanda, una proiezione, un ambiente preparato) da cui poi delle azioni possano emergere.
La leggerezza del non dire tutto, non ingolfare in maniera autoritaria lo spettatore di parole e dati, di lasciar decantare la parola attraverso l'evocazione più che la rappresentazione del reale, mi sembrano una modalità innovativa di riprendere l'eredità del cinema femminista oggi, senza più la retorica del militantismo ma con le stesse esigenze di critica e di forma. Cosa ne pensi?
Tutti i lavori che ho fatto partono da preoccupazioni che trovo importante affrontare singolarmente e pluralmente. Non intendo rinunciare a contribuire a questo mondo in un qualche modo (disperatamente) costruttivo e generativo. È importante sforzarsi affinché la pratica parli da sé. Accendere la camera significa aver cura di qualcuno/qualcosa… tentare di trasformare, lenire, nutrire microscopicamente la realtà che ci circonda.
Vedo interconnesse la giustizia ecologica e sociale, il riconoscimento del lavoro di cura, la trasformazione della violenza identitaria, la riduzione del violento divario nella distribuzione delle ricchezze e nell’accesso iniquo alle risorse… Ognuno lascia cadere la propria goccia e in questa accezione ha senso associare l’inizio delle riprese alla parola “azione!”.
E poi c’è il muoversi che ha mosso forse anche i nostri antenati a dipingere le mani negative sulle pareti delle caverne magdaleniane…
Esistono due diverse versioni de La Danza di Henri Matisse. Anzi, in verità ne esistono tre. La prima è stata realizzata dal pittore nel 1909, e la trovate oggi esposta presso il MoMa di New York. La seconda gli viene commissionata il medesimo anno dal collezionista russo Sergej Ščukin. Con La Danza II, e La musica, egli intende decorare il suo scalone. I due dipinti sono visitabili oggi presso L'Ermitage, a San Pietroburgo. Esiste poi una terza composizione che porta il medesimo titolo. Sono i tre pannelli dipinti nel 1933 per il dottor Barnes e la sua Fondazione, a New York.
Non siamo finiti fuori tema. Non abbiamo sbagliato argomento. La Danza II di Matisse compare al trentacinquesimo minuto di Al di là dell'uno, film che Anna Marziano ha realizzato nel 2017. In un giardino, quattro mani reggono i bordi di una riproduzione a colori del dipinto. Deve essere stata levata dalla parete. Una voce femminile (vediamo la donna una frazione di secondo prima sorreggere il vetro protettivo che la custodiva), commenta: «Proprio prendeva tutta una parete, mi ricordo ancora il salone». È possibile che Anna Marziano stia in quel momento filmando la sua famiglia. Ma il ricordo del dipinto visitato supera il semplice aneddoto familiare. Ci pare possa invece condurre al cuore del suo lavoro. Mentre le quattro mani sostengono la riproduzione, e la macchina da presa filma, la voce femminile – over – constata: «Mi era piaciuto perché era questa danza... Perché si davano le mani, e poi erano proprio cinque come la nostra famiglia». E continua: «Mi sembra comunque che c'è una parte che non si chiude, se non sbaglio. E quindi, insomma, lasciava lo spazio libero ad altri ingressi eventualmente...».
Brice Marden, uno dei più importanti artisti contemporanei, ha ben colto il cuore dei due dipinti esposti all'Ermitage: «Pitture incredibili. Vengono dritti dalle pitture rupestri. Sono impressionanti. Il loro rispetto per la gioia, la natura, la musica e la danza: elementi così espressivi. Una delle cose più importanti in Matisse è la ricchezza e la vita che arriva a incorporare in un dipinto, in modo che un dipinto significhi più di ciò che mostra».
Soffermiamoci su un'osservazione della madre. Nel dipinto, qualcosa non si chiude. Le mani di una delle figure slanciate non si saldano con quelle dell'altra posta alla sua sinistra. Il cerchio non si salda. Resta un margine aperto, indefinito. Uno spazio libero. Libero di accogliere cosa? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare a Matisse. Non alla Danza, ma ai suoi successivi papiers découpés.
L'arte del découpage, o del collage, è un modo di fare arte. Matisse l'ha utilizzata al culmine della sua carriera. Questa pratica è ben presente nei film di Anna Marziano. In Al di là dell'uno e in Al largo (2020) ad esempio, mani ritagliano, accostano, sovrappongono, spostano figure di carta ritagliate. E ci sembra che questi gesti corrispondano al modo in cui Marziano compone i suoi film, insomma, costruisce le sue inquadrature: a un'immagine viene avvicinato un suono, spesso autonomo. Arte del montaggio. Arte del collage. È da questo processo compositivo, da questa mossa, in cui i suoni si confrontano con le immagini, che qualcosa nell'inquadratura emerge, prende posizione, magari per pochi secondi.
Sembra quasi che ogni inquadratura di Anna Marziano funzioni come quei pezzi del gioco degli scacchi che Matisse amava citare. Lui, che non amava giocare con pezzi (segni) che non cambiavano mai, avrebbe preferito inserire piuttosto: «Figurine somiglianti al Tale, al Talaltro, ad altri ancora, a gente di cui conosciamo la vita, allora potrei giocare, ma inventando un segno diverso per ogni pedina in ogni partita». La partita a scacchi diventerebbe allora una specie di romanzo o di avventura. Qualcosa di simile ai film di Anna Marziano. Avventura delle immagini e dei suoni. Forbici, giunte: il fulcro dell'idea si trova qui. Mai giocare due volte allo stesso gioco. Mai combinare gli stessi elementi due volte. Sembra emergere da questo criterio una modulazione ritmica, una libertà del soggetto. Gli accostamenti potrebbero moltiplicarsi, come le figure di carta maneggiate nei suoi film. «Il découpage – ci ricorda Matisse – è quello che oggi ho trovato di più semplice, di più diretto per esprimermi. Bisogna studiare a lungo un oggetto per sapere qual è il suo segno. Almeno perché in una composizione l'oggetto divenga un segno nuovo che faccia parte dell'insieme conservando la sua forza».
Ci pare che nei film di Anna Marziano gli accostamenti, il montaggio, tenda a non si chiudersi mai, lasciando aperto uno spiraglio. Uno spazio libero, come le mani che si mancano nella Danza. Uno scarto che risuona tra le inquadrature e la sensazione che provocano nello spettatore. È la forza dei suoi film, che, nella maggior parte dei casi, sono film-saggio. Testano continuamente le possibili concatenazioni di immagini e suoni. In Al largo un uomo ricorda il suo incidente alla spina dorsale. Lo sentiamo riflettere sulla difficoltà di ottenere una possibile cura: «L'apparecchio va tarato di modo che le onde che ti mandano siano tali da bloccare quelle del dolore». L'immagine che accompagna la voce è quella del movimento increspato delle onde marine; ma il loro moto ci ricorda un paesaggio spinale. Il rumore delle onde sale.
Esempi simili emergono dai suoi film. Immagini, suoni, testi, oggetti, animali, piante. Tutto circola, entra in collisione o in metamorfosi. Oppure sembra sfarinarsi, alterarsi, come la pellicola seppellita in Tutto qui (2022). L'elemento acquatico, fluttuante, è spesso presente. Come se il ritmo del montaggio dipendesse da differenti moti ondosi. Nel suo Mediterraneo, Predrag Matvejević ne elenca la diversità: regolari o irregolari, longitudinali, trasversali o incrociati, di superficie, di profondità, solitari, frequenti, casuali, cullanti, perfino ciclici. Alcune volte i moti sono impetuosi, come in La veglia (2010): una mano impugna la forbice e taglia i petali di fiori dai colori vivi.
Bisognerebbe dire quanto Anna Marziano sappia catturare e inquadrare la luce, i suoi riflessi. O di come in De la mutabilité de toute choses et de la possibilité d'en changer certaines (2011) la figura umana finisca inghiottita da un paesaggio innevato simile a un geroglifico. E dovremmo anche parlare di come alcune inquadrature di Variazioni ordinarie (2012) sembrano uscite da News from Home di Chantal Akerman. Scena notturna: le insegne di un negozio di alimentari lampeggiano. Un via vai di figure umane entra ed esce. Voci raccontano le loro vicende esistenziali. Concatenamento di azioni tra le figure. C'è tutta una precisione, una giustezza dei sentimenti, mai sentimentale, che modula i suoi film. La grazia di Anna Marziano è di saperla raggiungere grazie a forbici, colla, giunte. Ne emerge un pensiero. Cioè la misura e la ricchezza delle cose mostrate, accostate – la loro singolarità, il loro equilibrio. (1)
Rinaldo Censi
à.
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