Lezioni di Storia - Per una storia del cinema post-coloniale 2# fra cosmologia e ideologia
Alla presenza del curatore Federico Rossin
Ibridazione di due diversi approcci alla narrazione: la registrazione documentaria e la messa in scena del mito. Girato durante un periodo di cinque anni, offre uno sguardo di prima mano sulle esperienze dei gruppi indigeni di Coconuco in Colombia, in lotta per il recupero della loro terra e della loro storia. È un film che tenta di avvicinarsi al subconscio di una cultura: tra analisi e poesia, storia e magia, mito e ideologia. Per «vedere il passato politicamente e pensare al presente storicamente».
Marta Rodríguez (1933), allieva di Jean Rouch e laureata in antropologia, e il suo compagno, il fotografo Jorge Silva (1987), sono partiti dall'idea di trasformare il cinema in uno strumento culturale e di denuncia. Per questo motivo, hanno dedicato tutto il loro lavoro a ritrarre le lotte sociali dei contadini e degli indigeni in Colombia. I lunghi periodi di ricerca e produzione, così come l'integrazione partecipativa delle comunità nel processo di realizzazione e montaggio dei film, sono stati una costante nella loro ricerca di combattere la storia coloniale ufficiale attraverso la memoria popolare e l'azione politica.
Per questo quinto appuntamento con le Lezioni di storia– un saggio di curatela tra pedagogia e politica, aperto al dialogo con gli spettatori – ci è sembrato importante interrogare alcuni frammenti mancanti o sconosciuti di una storia del cinema mondiale vista dal cosiddetto Terzo Mondo, cercando nuovi strumenti di pensiero e di analisi in risposta alle sempre più determinanti e necessarie teorie, storie e movimenti post-coloniali e de-coloniali di cui l'Italia fatica ancora a interessarsi.
Questi tre programmi sono un primo tentativo nella direzione di una scrittura effettivamente plurale della storia del cinema mondiale. Nel termine post-coloniale, il prefisso “post” non si riferisce a un “dopo” ma a un “oltre”: il cinema post-coloniale ci aiuta a pensare la complessità delle nazioni ex-colonizzate senza adottare il punto di vista di noi europei colonizzatori; questi film ci servono a uscire dal paradigma coloniale e a liberarci da una visione omogenea ed eurocentrica della storia del mondo. La loro forma eterodossa e la loro scrittura ibrida sono un tentativo di vanificazione dell'immaginario coloniale e di decostruzione delle sue categorie.
Ma si tratta anche di sondare la misura in cui la storia dominante del cinema è essa stessa inscritta nel paradigma del colonialismo, paradigma inseparabile dalla modernità occidentale. Se alcuni teorici hanno sollevato la questione della «colonialità del sapere» e della «colonialità del vedere», qui si cerca di aprire una possibile via per una decolonizzazione degli approcci storiografici, teorici e critici.
Il cinema è stato storicizzato da una prospettiva fondamentalmente occidentale, che ha privilegiato gli oggetti, le figure e i movimenti dei paesi centrali per l'economia capitalistica, e ha dato risalto a certi temi e metodi a discapito di tutto il resto. Questa breve retrospettiva ha l'ambizione teorica di voler concentrarsi su un altro corpus discorsivo, al fine di interrogare il potere critico degli approcci post-coloniali in un decentramento della storia e della teoria del cinema, da un angolo non eurocentrico.
L'obiettivo è, da un lato, di riesaminare la storia del cinema da altre aree geografiche e diverse prospettive di ricerca e, dall'altro, di diversificare gli oggetti analitici, i motivi, gli approcci e le metodologie. Questo aspetto è inseparabile da una riflessione sulla persistenza e la ristrutturazione delle relazioni coloniali in Europa oggi, così come dalla costituzione di una genealogia più complessa del cinema europeo che tenga conto della contro-storia, o della storia mancante, di film che sono stati resi invisibili a causa del loro contenuto e delle loro forme, della loro singolarità politica, poetica e formale, così come delle loro modalità di produzione.
Quali film realizzati in (ex)colonie o nazioni (ex)colonizzatrici possono essere pensati oggi come gesti de-coloniali? Dove inizia una forma di film de-coloniale? Come rivisitare, alla luce del presente e degli studi post-coloniali e de-coloniali, film che rivendicavano un'emancipazione estetica e politica fin dagli anni Sessanta? La Mostra di Pesaro ha sempre avuto una tradizione altermondialista (la vicinanza al Cinema Novo, al cinema cubano e sudamericano, ecc.) e vogliamo riprendere qui il filo di una lunga storia ma riattualizzandola alla luce del nostro tempo.
In questi tre programmi esploreremo il cinema delle registe femministe del Maghreb come Assia Djebar e Selma Baccar, che hanno decostruito allo stesso tempo il patriarcato delle loro società d'origine e l'orientalismo occidentale, quello dei colombiani Marta Rodríguez e Jorge Silva che con il loro lavoro pluriennnale con gli indios delle Ande hanno saputo decolonizzare il discorso antropologico tentando nuove strade d'ibridazione e racconto mitologico, ed infine il diarismo eretico-politico del filippino Kidlat Tahimik, che con il suo bricolage fatto in casa smonta le retoriche terzomondiste e l'ideologia neocapitalista della mondializzazione.
Anche se i neoconservatori di ieri e di oggi caricaturano il post-colonialismo multiculturale come una richiesta di espulsione e colpevolizzazione di tutta la cultura europea dal canone della civiltà mondiale, esso è in realtà un attacco non all'Europa o agli europei ma all'euro-americano-centrismo (cui oggi possiamo anche aggiungere il neo-imperialismo russo di Putin). Il cinema e il pensiero de-coloniali erodono alle fondamenta una cultura forgiata su di un'unica prospettiva paradigmatica in cui l'Occidente è visto come unica fonte di significato, come centro di gravità del mondo.
L'eurocentrismo, che questi film mettono radicalmente in crisi, ha sempre diviso il mondo in “Occidente” e “resto del Mondo” e ha organizzato il linguaggio quotidiano in gerarchie binarie implicitamente lusinghiere per il Vecchio Mondo: le nostre "nazioni", le loro "tribù"; le nostre "religioni", le loro "superstizioni"; la nostra "cultura", il loro "folklore"; la nostra "arte", i loro "manufatti"; le nostre "manifestazioni", le loro "rivolte"; la nostra "difesa", il loro "terrorismo"...
Questo pugno di film ha l'umiltà di distrarci una volta per tutte da questa visione provvidenziale del Vecchio Mondo, ed immergerci in un'avventura audiovisiva poliritmica e policentrica, multifocale e meticcia: alla ricerca di un'estetica della resistenza in cui s'incrociano il realismo magico e la riflessività modernista, il ritmo della narrazione orale e una spiritualità animista, uno stilismo polimorfo e un gusto per il carnevalesco e il visionario. La facile dicotomia tradizionale/moderno e il concetto stesso di realismo cinematografico - e quindi di realtà tout court - sono qui problematizzati e resi porosi e ambigui. È proprio questa zona di apparente insicurezza e rischiosa ambiguità che vogliamo esplorare, per aprirci ad un domani senza frontiere e nazionalismi, finalmente libere e liberi.
Francesco Rossin
Marta Rodríguez e Jorge Silva
1974-1981/1982, 16 MM, BIANCO E NERO, 110', Colombia
SCENEGGIATURA : Marta Rodríguez e Jorge Silva
FOTOGRAFIA : Jorge Silva
SUONO : Ignacio Jiménez, Eduardo Burgos, Nora Drukovka
MUSICA : Jorge López
INTERPRETI MUSICALI : Grupo Yaki Kandru, Polytope e Medea di Iannis Xenakis.
TESTI : Originali degli indios Cauca e Arawak, testi classici dei popoli indigeni di Messico, Perù e Bolivia
VOCE OFF : Lucy Martinez, Benjamín Yepes, Santiago García
MONTAGGIO : Marta Rodríguez, Jorge Silva, Caíta Villalón
PRODUZIONE : Fundación Cine Documental e colaborazione dell'ICAIC (Instituto de Arte e Industria Cinematográfica de Cuba)
TUTTE LE PROIEZIONI SONO GRATUITE