Incontro con l’autore a cura di Luca Pacilio
SATAN EATS SEITAN (Julie’s Haircut) 2006 3’28’’
ANGELES (Subsonica) 2007 3’25’’
I CAN’T GET ANYTHING (Le man avec les lunettes) 2008 4’30’’
MAFIA SPA (Postal_M@rket) 2009 3’17’’
PARLO DA SOLO (Offlagadiscopax) 2012 3’07’’
WES ANDERSON (I Cani) 2012 3’19’’
STORIA DI UN ARTISTA (I cani) 2013 3’45’’
SEMPLICEMENTE (Bluvertigo) 2016 3’45’’
DOMENICA (Coez) 2019 3’21’’
DISCOLABIRINTO (Subsonica + Cosmo) 2020 4’17’’
L’ARIA STA FINENDO (Gianna Nannini) 2021 3’19’’
PRIVILEGIO RARO (Tutti Fenomeni) 2022 3’35’’
Vedomusica anno secondo: rieccoci a puntare l’attenzione sul mondo della videomusica italiana con un nuovo viaggio nelle proposte sul campo dell’ultima stagione. Alla luce dei risultati del contest che precede il festival, i venti videoclip della selezione iniziale verranno ridotti a una shortlist di sei titoli, proposti durante le serate festivaliere: sarà una giuria di qualità a decretare il video vincitore. Nella selezione si è cercato di rappresentare stili e approcci differenti - sia a livello musicale che a livello registico - e di proporre tutto il meglio che la nuova generazione di videomaker italiani ha saputo produrre. In questo senso Vedomusica si prefigge di nuovo l’obiettivo di farsi catalogo credibile delle migliori creatività che il settore ha saputo esprimere nel periodo, da un lato proponendo griffe oramai affermate e, dall’altro, scommettendo su nomi nuovi. Ma anche quest’anno non finisce qui: accanto all’istantanea sullo stato dei lavori nella videomusica italiana, la sezione ospita nuovamente un focus dedicato. Dopo l’omaggio a Uolli dell’edizione passata, è stavolta Luca Lumaca il protagonista del percorso retrospettivo, un regista che da anni porta avanti, con stili e tecniche sempre differenti, una poetica originale: sovvertendo le logiche e le estetiche di ambiti riconoscibili, l’autore, con sensibilità pop, inquadra da prospettive inaspettate, problematizzandoli, aspetti controversi della contemporaneità. Una videografia politica, quella di Lumaca, che usa l’ironia dello sguardo e la leggerezza del linguaggio per sollevare dubbi, squarciare il velo dei pregiudizi, scuotere le coscienze.
A CURA DI LUCA PACILIO
Luca Lumaca nasce fotografo.
Sì, ho iniziato, come autodidatta, da ragazzo. A tredici anni facevo foto nella mia cameretta, scatti che seguivano un'ottica superpop che già allora mi attraeva molto: oggetti sfocati, giochi su forme e colori. Poi, mentre ero al Dams di Bologna, al primo anno di università, mi è stato proposto un lavoro in uno studio di fotografia industriale: ho lasciato l'università e ho iniziato a lavorare lì. Era l’epoca del passaggio al digitale con tutto quello che comportava, come la postproduzione su Photoshop: in quello studio ho appreso tutti i rudimenti della nuova tecnica. Dopo pochi anni mi sono messo in proprio. Attualmente, come fotografo, mi occupo di architettura e design d'interni.
Com’è entrato il videoclip nella tua vita?
Da ragazzino guardavo i video su MTV: amavo soprattutto i lavori incredibili di Chris Cunningham, Spike Jonze, Michel Gondry. Il videoclip, come tanta parte del linguaggio pubblicitario, è un settore dell’audiovisivo in cui si pratica una ricerca continua. Senza arrivare alla libertà da qualsiasi vincolo della videoarte, è un settore in cui c’è una sperimentazione impossibile in altri campi, dalla televisione al cinema. In un lungometraggio, ad esempio, si è comunque vincolati dalla narrazione, mentre il videoclip ti consente di esprimerti con altre modalità: puoi anche decidere di non raccontare nulla, concentrarti su un tuo viaggio tecnico-estetico.
Gli inizi sono segnati dai lavori con i Julie's Haircut: qual era il legame col gruppo? È un cammino che hai in comune con molte grandi firme della videomusica, che partono collaborando con un progetto musicale preciso e si scoprono dotati di un talento che può mettersi al servizio di altre realtà musicali.
Anche nel videoclip avevo questa idea di sperimentare da solo: ascoltavo la musica indipendente che c'era in quel periodo in Italia e in una compilation c’era un pezzo che mi piaceva tantissimo di questo gruppo. Ho scoperto poi che la band viveva a pochi chilometri da casa mia, qui in Emilia: ci siamo conosciuti e abbiamo cominciato a collaborare. I progetti erano poco più che giochi fatti in casa senza budget.
A proposito di giochi: fin da subito il tuo lavoro mette in evidenza caratteristiche che scopriremo ricorrenti, a cominciare proprio dalla tua fissa per giochi e videogiochi, soprattutto d’antan.
Cerco di non replicare mai le stesse soluzioni, mi piace sperimentare cose diverse, ma se dovessi individuare un filo che unisce i miei lavori è proprio questo amore per i giochi, una passione che viene dalla mia infanzia: i videogame a 8 bit, quelli che giocavo sul VIC 20 - da Space Invaders a Mario Bros -, i Lego. In generale, anche solo come riferimento puramente visivo, mi attira tutto quello che attiene alla cultura pop. Anche nelle mostre d'arte ad attrarmi sono soprattutto le realizzazioni che rispondono a quel tipo di estetica.
Satan Eats Seitan è un clip che assecondando un percorso videoludico, propone quella che si rivelerà una delle tue costanti: utilizzare estetica e logiche di un ambito riconoscibile - in questo caso quelle del videogioco - per piegarle a finalità diverse. I tuoi video parlano sempre di attualità, con un fondo marcato di critica sociale. Video politici.
Sì, c'è sempre un riferimento socio-politico nelle cose che faccio. Del resto, a mio avviso, qualsiasi gesto artistico nasconde qualcosa di politico: anche quando i Beatles scrivevano canzoni d'amore, c'era sempre qualcosa di più profondo che veniva espresso. In generale, come dicevi, mi piace partire da un format che appartiene a un certo mondo, stravolgerlo e infilarlo in un contenitore diverso. È importante vederci qualcosa di più, andare oltre quello che ci si aspetterebbe dall’applicazione di quella formula, giocare col linguaggio che si è deciso di utilizzare, come l’infografica per il video di Mafia spa.
Guardando oggi all’apparizione dei poliziotti nel video di Satan mi è venuta in mente quella contestatissima del video di Gianna Nannini…
Non ci avevo pensato! È davvero un cerchio che si chiude. Sono rimasto molto segnato dai fatti di Genova del 2001: all'epoca ero molto impegnato in ricerche fotografiche e avevo rifatto il G8 con i Lego. Quell'evento credo che abbia segnato me come molti altri della mia generazione: la violenza verso cittadini comuni da parte di chi quei cittadini dovrebbe difendere.
La tua è una visione lontana dal realismo a cui il videoclip italiano ci ha abituati, usi moltissimo l’animazione e credo che tu non abbia mai realizzato un performativo classico.
Torniamo a quello che dicevo prima: la passione per il videoclip è nata con certi video e certi autori, clip come Let Forever Be di Gondry che guardavi e riguardavi a bocca aperta. È il tipo di lavoro che mi interessava fare sulla videomusica: sono lontanissimo dall’idea di un clip con l’artista in playback, nella bella location, col contorno di immagini modaiole.
Anche quando parli di realtà durissime - penso all’alienazione della fabbrica in Angeles, la cover di Elliott Smith dei Subsonica - poni il tutto su un piano quasi astratto, con quell’animazione stilizzatissima che mi ricorda certo cinema di genere e il film Tron in particolare.
Quando l'ho concepito era il periodo in cui era tornato alla ribalta il problema delle morti sul lavoro, era successo il brutto fatto della Thyssenkrupp. Dal punto di vista tecnico volevo usare i reticolati di grafica dei primi anni 80, come quelli dei visual dei Kraftwerk o di Tron, certo: quel tipo di estetica mi attraeva. Poi ci ho inserito riferimenti al cinema espressionista: da Metropolis di Fritz Lang a La folla di King Vidor.
Anche il supposto realismo del video per gli Offlaga Disco Pax viene quasi subito smentito dal paesaggio che va a tempo. Poi il contesto urbano diventa un rendering che ce lo mostra come pure apparenza.
Dal momento che il disco degli Offlaga era molto concentrato su Reggio, il gruppo voleva qualcosa che fosse attinente. A me andava bene, ma a condizione che mostrassimo il contesto urbano come qualcosa di astratto, la realtà in cui viviamo come puro aggregato di poligoni. E così è uscita questa cosa strana in cui l'immagine del reale glitcha su quello che c'è sotto.
In Semplicemente per i Bluvertigo arrivi a combinare il video con il suo making of, mostrando all’inizio come sei arrivato a ottenere le tessere per costruire i mosaici che costituiscono il cuore ideativo del lavoro.
Era un periodo che vedevo online un sacco di tutorial di cucina, così ho pensato di mostrare anch'io come cucinavo il mio piatto, ovvero il mio gioco. E così svelo la ricetta, le tappe del lavoro che consentono di arrivare al risultato. Con tempi di realizzazione, tra l’altro, che sono lontani da quelli standard di un video contemporaneo, perché per un clip come questo ci vogliono settimane.
Come lavori sulla traccia musicale?
Se non ho vincoli imposti dall’artista per cui sto lavorando, ascolto la canzone, chiudo gli occhi e penso a un mondo che si sviluppi coerentemente con le sensazioni che evoca il brano musicale. Generalmente parto dall’aspetto tecnico, dal tipo di linguaggio e stile che voglio dare alla creazione visiva. Poi penso a come dividere matematicamente il tempo delle strofe e quello dei ritornelli. Capita, anche se raramente, di riuscire a realizzare un’idea che si ha già in testa da tempo e che riesci ad abbinare ad una traccia che ti viene proposta, come è successo ad esempio con Privilegio Raro di Tutti Fenomeni: dove sono riuscito a fare un omaggio contemporaneo e a colori del lavoro di Méliès.
Hai mai pensato, come tanti videomaker, al clip musicale come a un possibile viatico per il cinema?
Sì, e negli anni sta diventando una possibilità sempre più concreta. Mi sono detto: ho fatto tante cavolate, proviamo a fare anche questa. Non è semplice perché le idee che propongo sono molto diverse dal dramma familiare con Margherita Buy o Alba Rohrwacher, cose che non mi appartengono e non riuscirei a fare neanche volendo. Il mio sarebbe un cinema più vicino a quello di Elio Petri o Marco Ferreri, storie lontane dal realismo, più bislacche e visionarie.
Il tuo è un videoclip d’autore, difficile da realizzare in Italia. Quanto sei stato libero nel tuo lavoro?
Alla resa dei conti tanto, perché sono riuscito a slegarmi dalla logica dominante. Avendo un lavoro che mi piace molto e che mi fa viaggiare, non ho bisogno di fare marchette o buttarmi in cose che non mi convincono. E poi farei anche fatica a realizzare clip col cantante da celebrare... Mi pare che sempre più quelli italiani si avvicinino ai video che vengono fatti per la moda: tecnicamente ineccepibili, ma alla resa dei conti bellissime scatole vuote. È chiaro che ci troviamo di fronte alla vendita di un prodotto, per cui è logico porre gli artisti in una certa cornice, vestirli con l’abito griffato: sono lavori che rispondono a un meccanismo che comprendo, soddisfano l'esigenza di un’industria che vuole vendere. Ma, ripeto, non li potrei mai fare.
Ritengo importante che un’artista come Gianna Nannini abbia deciso di rivolgersi a te. È il segnale che anche nel mainstream si cerca di praticare la strada del videoclip d’autore.
Gianna Nannini ha visto il video di Coez e da lì, pescando altre cose più vecchie, è andata fuori di testa. Le ho proposto un primo trattamento che insisteva sul discorso della canzone d'amore attraverso una storia che si ripete all'infinito in una serie di loop costruiti uno dentro l'altro. Lei mi ha chiamato e mi ha detto: «Non hai capito nulla, io voglio una delle tue cose strane in animazione» e mi ha dato la reference della copertina del suo disco America, la Statua della Libertà con il vibratore in mano, e da lì sono partito a razzo…
Chi sono i tuoi videomaker preferiti?
La triade di prima per me è imbattibile. Poi ci sono i fratelli minori, Jonathan Glazer, Mark Romanek, Anton Corbijn. Però Gondry, Jonze e Cunningham per me rimangono inarrivabili, tre mondi diversi che hanno dettato un linguaggio che vale ancora. Non solo nella videomusica, anche nel cinema.
Un artista per il quale vorresti fare un video. E puoi sognare.
A me piacciono molto i progetti di Damon Albarn, dai Blur ai Gorillaz. Invece la mia “band preferita” dell’età adulta sono i Phoenix.
Nato a Modena nel 1978. Dal 1997 svolge l’attività di fotografo e da allora lavora nel campo della pubblicità per importanti aziende italiane ed internazionali. Dal 2001 immagina e crea video musicali e commerciali. Negli anni ha lavorato a più riprese con la scena indipendente italiana, pubblicando per vari artisti clip che hanno totalizzato milioni di visualizzazioni sulle piattaforme web. Molte di queste produzioni sono state premiate più volte per il loro valore creativo ed hanno trovato spazio in mostre e festival di settore. L’immaginario delle sue creazioni è spesso iperpop contemporaneo e sperimentale, sempre votato alla ricerca tecnica, con un occhio alle tematiche politiche e sociali.
TUTTE LE PROIEZIONI SONO GRATUITE