Programma
2024

24 Giugno
Sabato 24-06-2023
ore 15:30
Teatro Sperimentale - Sala Pasolini

Il mio film

Stündlich I

Milena Gierke

Focus Milena Gierke #3

Germania

Focus Milena Gierke

STÜNDLICH I (Germania, 1991, 6'30'')
HAUTKLOPFEN (Germania, 1991, 3’)
OPERNBLÜTE (Germania, 1992, 3’)
KLATSCHMOHN II (Germania, 1993, 4')
BAUMSCHATTEN (Germania, 1996, 2')
ZAUBERZEIT (Germania, 2009, 3’)
WASSERSPIEL I (Germania, 1997, 2')
ENTGEGEN (Germania, 1999, 3’)
DEPUIS QUE JE ME SOUVIENS (Germania, 2005 12') 
CHINA - SUPER 8 REISETAGEBUCH (Germania, 1990, 17')
ZEIT (Germania, 1991, 9')
Alla presenza della regista e dei curatori  Federico Rossin e Rinaldo Censi

Nel 1942, Henri Matisse si appunta alcune note dopo aver letto il manoscritto di Louis Aragon intitolato Matisse in Francia. Riguardano i disegni della serie “Thèmes et Variations”. «Quando eseguo i miei disegni Variations, il cammino della matita sul foglio di carta ha in parte qualcosa di analogo al gesto di un uomo che cercasse, a tentoni, la strada nell’oscurità. Voglio dire che il mio tracciato non ha nulla di previsto: sono guidato, non sono io a guidare». È lo sguardo interiore a guidare Matisse. Riguardo ai Thèmes, il suo ragionamento è più indefinito: «Non ho ancora visto con altrettanta chiarezza il modo in cui procedo, perché è molto più complesso e molto voluto. Questo “molto voluto” è un serio ostacolo per vedere chiaro quello che più conta – perché quel “molto voluto” impedisce all’istinto di sorgere in tutta evidenza».
Possiamo dire che i film di Milena Gierke si muovano tra questi due poli: procedimento “interiore” e “molto voluto” – con tutte le sfumature che queste due posizioni accolgono. Forma diaristica, sketchbook. Chi li realizza è uno spettatore, un contabile, un archivista volubile di cose non scritte, colte attraverso l’osservazione.
Sono film scanditi da movimenti simili a quelli di un orologio: sono dettati da meccanismi, bielle, dalla camma della cinepresa Super 8. La piccola cinepresa diventa uno strumento musicale altamente preciso. La scansione dei fotogrammi è controllata dal dito di Gierke sulla leva. I grattacieli di New York, gli agenti atmosferici, un panorama, l’acqua, i diversi stati della luce, o una semplice rana, placida sul fondo di un torrente: ogni elemento possiede un suo ritmo, una sua vita, modulata dal “passo” della cinepresa. Musicalità delle cose. Una «scienza del muovere bene» dice Agostino nel De musica. E dunque? «Si può dire che è mosso bene tutto ciò che è mosso secondo leggi numeriche nell’osservanza delle misure dei tempi e delle lunghezze». Milena Gierke muove bene.  

MILENA GIERKE crediti Martin Schoeller

Credit photo: Martin Schoeller

Milena Gierke, nata a Francoforte sul Meno nel 1968, studia dal 1989 al 1994 alla Frankfurt Hochschule für Bildende Künste, Städelschule, in particolare con Peter Kubelka che insegna “Film + Kochen” (Film e cucina). Nel 1994 si iscrive alla Cooper Union di New York City, dove studia scultura con Hans Haacke e storia del cinema con James Hoberman. Fra i docenti vi erano anche esponenti del cinema d’avanguardia americano, come Ken Jacobs e Robert Breer. Nel 1995 Jonas Mekas, che ha fortemente influenzato la forma diaristica adottata da Gierke, ha organizzato una retrospettiva di tre ore dei suoi film allo Anthology Film Archive. Fa parte dal 2001 del gruppo di curatori “Filmsamstag” presso la Filmkunsthaus Babylon di Berlino, città dove vive dal 1998.

 

Intervista a Milena Gierke

Federico Rossin

Che cosa ti ha spinto a fare cinema?

Sono una persona aperta e curiosa. Ero attratta da diverse arti e non riuscivo a scegliere una singola direzione. Un po’ ho scritto, ho disegnato e dipinto, ho suonato il pianoforte, fatto danza. Mio padre scriveva sempre, mia madre dipingeva, per me era tutto familiare.
Dopo la maturità ho vissuto per qualche mese a Parigi con mia cugina che fa l’attrice, e all’epoca girava molto. A volte l’andavo a trovare sul set e guardavo come lavorava. A un certo punto mi è scattato qualcosa, e mi sono resa conto che volevo anch’io fare film, «ma non di finzione come quelli che vedevo durante le riprese. Voglio fare film senza attori né troupe né sceneggiatura. Non voglio che la macchina da presa mi sia mai tolta di mano, voglio decidere e filmare tutto per conto mio. Non voglio che nessuno reciti per me, che faccia finta. Voglio che sia tutto vero». Forse
è stata la stessa sensazione che hanno avuto gli impressionisti quando hanno deciso che per dipingere la natura bisognava andare all’aria aperta. Ma a quel punto non conoscevo ancora film sperimentali e anzi nessun tipo di cinema, a parte qual che film e documentario tradizionali.
Grazie a un piccolo cineclub ho rimediato una videocamera e ho girato un piccolo film sugli autoritratti nell’arte, con il quale ho fatto domanda alla Städelschule, l’accademia d’arte di Francoforte. Solo allora, quando mi sono trovata con Peter Kubelka in classe, ho saputo: questo è esattamente il posto che fa per me! E inoltre tramite il mezzo cinematografico potevo sempre accogliere tutte le altre arti che mi interessavano, se avessi voluto. Con questa certezza sono finalmente riuscita a impegnarmi totalmente nel cinema.

Hai adottato la forma diaristica fin dal tuo primo film: per quale motivo hai scelto questo stile cinematografico, in cui vita e cinema si confondono tutto il tempo?

Ha a che vedere col fatto che probabilmente io sono approdata al cinema più dall’arte. Leggevo diari, e ne ho scritti anche io. Mi sono sempre interessati dipinti e disegni di artisti che rappresentavano la vita quotidiana molto di più che le scene bibliche o situazioni narrative. I pittori che, in cerca di sé stessi, si guardavano allo specchio in modo critico e dipingevano autoritratti con regolarità, come Rembrandt, Dürer, van Gogh, Munch, Paula Modersohn-Becker, mi hanno sempre affascinata. Ad esempio anche van Gogh e Modersohn-Becker hanno sempre dipinto situazioni quotidiane. Quando ho ritrovato questo tipo di osservazione in film degli albori del cinema come L’uomo con la macchina da presa di Vertov, o in successivi come i film-diario di Mekas o le sfaccettate osservazioni di Brakhage, ho capito che il cinema era la forma d’arte adatta a me.
Il confronto costante di situazioni simili e i loro mutamenti in dettaglio. La gioia di osservare e notare questi piccoli processi, come quando cambia l’angolo di incidenza della luce. O qualche oggetto inutile che alla luce solare, e in una prospettiva particolare, diventa qualcosa di bello. Si può trovare ciò dappertutto, se si aprono gli occhi e si è in grado di gioire di qualcosa ed esser grati di riconoscerla, avere la possibilità di farne esperienza. È una specie di ode alla vita. E mi piace condividere con altre persone questo tipo di gratitudine nei confronti della vita con i miei film.

Hai sempre lavorato con una Mdp Super 8: perché hai adottato questa particolare tecnica amatoriale, e come ha influenzato il tuo lavoro questa macchina da presa molto leggera?

Quando mi sono iscritta al corso di cinema di Peter Kubelka il video era ancora ai primissimi passi e la maggior parte degli studenti usava la Mdp 16mm. Quello che facevano con questa macchina mi affascinava, e ho anche provato a usarla, ma mi trovavo in grande difficoltà con l’esposimetro. Per me la tecnologia, i numeri, le astrazioni sono sempre stati quasi incomprensibili, e ho capito il perché soltanto di recente: sono affetta da discalculia. In ogni caso, il vantaggio di avere un esposimetro integrato e automatico, oltre al fatto delle dimensioni e leggerezza pur usando la pellicola vera, mi hanno convinto a provare la Super 8. Soprattutto con il montaggio in macchina perdeva qualsiasi stigma (che non risultasse fatto a regola d’arte). Insomma a volte è un bene accogliere le proprie difficoltà e trovare soluzioni interessanti!
Più avanti mi è molto piaciuto mostrare i miei film Super 8 (quasi tutti senza suono) al pubblico, con la proiezione che diventava quasi una performance, accompagnata dallo sferragliare rimico del proiettore che assomiglia al battito di un cuore e si sposa benissimo con l’esperienza.
La cosa più importante è sempre stata la somma della qualità della pellicola analogica, che con il Super 8 o il 35mm è sempre la stessa, e della possibilità di fare un montaggio super-preciso durante le riprese stesse. Ciò è reso possibile grazie ai comandi manuali di cui è provvista una macchina da presa non elettronica. In una frazione di secondo sto filmando e oplà, sollevo il dito dalla leva e “stop” – la macchina smette di riprendere. La stessa precisione di uno strumento musicale. Per finire, questa piccola e leggera Mdp è dotata di esposimetro integrato, che posso sempre far funzionare agilmente e silenziosamente, senza bisogno del cavalletto. È così che la mia piccola Super 8 Bauer per me è diventata come un’estensione del mio braccio ma con gli occhi.

Quanto è importante per te la fase di montaggio? E la spontaneità nel girare?

Per quanto riguarda il montaggio, probabilmente è l’aspetto più importante nel mio lavoro cinematografico: il montaggio in macchina.
Sul piano tecnico significa che dopo aver girato il film non viene modificato. Mentre nella maggior parte dei film e documentari il processo creativo avviene dopo lo sviluppo della pellicola impressionata, i miei film sono “montati in macchina”, e quindi già completi. Di conseguenza, il vero lavoro, e quello più importante di tutti, è fare la cosa giusta durante le riprese. Qualsiasi cosa si filmi verrà vista esattamente a quel modo. Montare in macchina significa evitare errori il più possibile, prendere decisioni lì per lì, e accettare il risultato delle riprese che hai fatto. Un po’ come nella vita reale, dove non si può tornare indietro di un giorno... e quindi: massima concentrazione durante le riprese!
È come con gli acquerelli, una tecnica con la quale qualsiasi pennellata rimane visibile, mentre con la pittura a olio ci puoi ripassare sopra tutte le volte che vuoi. Oppure come un concerto di free jazz, in cui la musica è composta mentre si suona. Di principio, naturalmente, montare in macchina comporta una rinuncia a molte possibilità del cinema: in particolare quella di modificare la cronologia e l’ordine degli eventi a piacimento. Ma proprio lì sta la differenza fra una procedura già scritta e una ripresa intenzionale, “pianificata”. Per molti la tecnica di questa forma d’arte, “montaggio in macchina” o piano sequenza, è difficile da capire, ma una volta che viene loro spiegata apprezzano i miei film ancora di più!

Quali sono stati i registi e artisti che hanno maggiormente influenzato la tua pratica artistica?

Per primi ho incontrato dei pittori, che mi hanno influenzato da bambina; registi e fotografi solo più avanti, quando studiavo.
Pittori: gli antichi maestri fiamminghi e olandesi, soprattutto Vermeer, poi Velazquez, gli impressionisti, e tutti i pittori citati prima.
Registi: Ejzenštejn, Vertov, Dovženko e Man Ray, Richter, Len Lye, e poi molto la successiva avanguardia nordamericana, Brakhage, Mekas, Kubelka, Breer, Snow, J.J. Murphy, Anger, Deren...
Fotografi: Sander, Blossfeldt, Rod enko, Cartier-Bresson, Stieglitz, Frank, Man Ray, Moholy-Nagy, Besnö, Strand, Lange, Weegee, Adams, Capa, Friedlander, Arbus, Modotti, ma anche di più nuovi come Anna e Bernhard Blume, Gerald Domenig...

Nei tuoi film c’è come una sintassi musicale che ci fa pensare alla musica: si può parlare di un influsso della musica sul tuo lavoro?

Prima di tutto l’intuizione che qualsiasi cosa che abbia un’elaborazione artistica nel tempo sia dotata di una componente ritmica. Quando si fa scorrere un blocchetto disegnato (flip book) si avverte subito quanto possano essere musicali le immagini, anche se non c’è alcun suono. Questo me l’ha insegnato il cinema muto, ma anche i film d’avanguardia. Il ritmo è come la notte e il giorno, o il battito del cuore, e perciò molto vicino alla vita vera. Il tempo contiene il ritmo, e quindi si può comporre con esso, anche senza suono. Per concludere, non è che abbia avuto un influsso diretto dalla musica, bensì la consapevolezza teorica di come utilizzare tempo e ritmo per far montare la tensione o mettere in risalto delle cose, per esempio.

Una parte importante del tuo lavoro verte sull’architettura: come “leggi” un edificio?
Quanto gioca l’intuizione in questo? Esplori le architetture prima di filmarle oppure no?

Di un edificio mi posso innamorare. Lo sento quasi fisicamente: quando succede sono tutta emozionata, e la mia attenzione si concentra tutta sull’edificio. Lo voglio vedere da tutte le parti e tutti gli angoli, ci cammino intorno, assorbo tutte le prospettive, ne colgo la bellezza. Un film su un edificio è una sorta di lettera d’amore che faccio leggere anche allo spettatore. Sì, nel mio entusiasmo ho voglia di gridare a tutti quanto sia bello quell’edificio: tutti dovrebbero sapere ed essere in grado di comprenderlo! E questa è l’intuizione.
E poi lo leggo anche con tutto il corpo. L’esperienza visiva viene chiaramente per prima. Soprattutto i giochi di luce a seconda del momento della giornata e dell’anno. E come si relaziona con il resto del mondo? Attraverso quali tipi di finestre? Poi viene l’acustica, il riverbero del suono in una chiesa o in un palazzo molto grande, come risuonano i miei passi, e quelli degli altri? Che suono fa quando la gente parla o canta? Poi, ancora più importante, arriva il tatto, o meglio il movimento totale del mio corpo rispetto all’edificio: guardo molto in alto o in basso, guardo oggetti vicini oppure in lontananza? E che sensazioni ho nel seminterrato? Qual è la consistenza del materiale? Ad esempio il corrimano. La maggior parte delle volte capisco istantaneamente se mi sto innamorando oppure no. E se ciò avviene il mio processo di percezione artistica comincia immediatamente. Che poi io vada a filmarlo subito o più avanti dipende dal tempo e dalle possibilità.  


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