Focus Brigid McCaffrey
Paradise Springs
33’, digital video, colore, sonoro, 2013
Alla presenza della regista e del curatore
In cinque anni di viaggi e permanenza all’interno del deserto del Mojave, la geologa Ren Lallatin ha sviluppato un rapporto molto stretto con le formazioni geologiche. Studia il deserto, rilevando gli eventi vulcanici e sismici, individua sorgenti acquifere e reliquie di abitanti precedenti, e identifica i dettagli del paesaggio che possano nascondere alla pubblica vista il proprio rifugio mobile. Il film segue la geologa mentre descrive come interagisce con il mondo della natura, dichiarando anche il suo rifiuto nei confronti della regolamentazione e privatizzazione della terra.
La regista e artista Brigid McCaffrey vive e lavora a Los Angeles. La sua pratica artistica consiste nel documentare ambienti e persone in uno stato di flusso, e in particolare con i suoi film studia i due poli dell’autonomia e della convivenza vissuti da persone che intrattengono distinti rapporti con il territorio. Le sue pellicole, in cui la rappresentazione del sé e del luogo si confonde, registrano le mutazioni fisiche ed emotive dei soggetti, dando luogo a sfumati ritratti.
I lavori di McCaffrey sono stati selezionati fra gli altri allo Hammer Museum, al LACMA, nello Harvard Film Archive, nella sezione Projections del New York Film Festival, a Rotterdam e alla Whitechapel Gallery di Londra. È stata ospite della Artists’ Film International 2015 al Ballroom Marfa e del Flaherty Seminar 2016. Nel 2019 ha ricevuto la Guggenheim Fellowship per Film & Video.
a cura di Rinaldo Censi
Hai passato la tua adolescenza sulla costa Est, a New York. Come ti sei avvicinata alle immagini in movimento? Eri già interessata alla fotografia e al cinema prima di frequentare il Bard College?
Scattare fotografie e stampare in una camera oscura mi piaceva già da adolescente, quando stavo a Brooklyn (New York). In quel periodo ho anche realizzato un film di finzione in Super8 con le mie amiche vestite da suore che provavano a fare una crocefissione nel gelo dei paesaggi invernali della città; era un modo per divertirsi con l’eredità iconografica proveniente dal lato irlandese cattolico della mia famiglia.
Ho cominciato a seguire corsi di cinema al Bard College, dove sono potuta entrare in contatto con un’incredibile gamma di film nel contesto di quello spazio condiviso che è il cinema. Mi emozionavano particolarmente i lavori sperimentali e poetici, i film-diario, e i vari approcci al documentario e all’etnografia che ho avuto modo di vedere (mi vengono in mente Julie Murray, Jonas Mekas, Greta Snider, Kidlat Tahimik e Trinh T. Minh-ha). Studiando con Peggy Ahwesh ho realizzato film-collage con una stampatrice ottica con cui ri-fotografavo e stratificavo i filmini di viaggio in 8mm di mia nonna e una quantità di film didattici e di finzione in 16mm che avevo ottenuto dalla biblioteca pubblica. È da lì che ho cominciato a riflettere sul diario di viaggio, il tempo del lavoro e il tempo libero, il senso di appartenenza e lo sradicamento. Lavorare in questo modo fisico con materiale già esistente ha enormemente influenzato la mia concezione del linguaggio filmico. Poi ho anche continuato a studiare fotografia, soprattutto con An My-Lê, e ho lavorato con una macchina fotografica per pellicole di grande formato, documentando i paesaggi urbani della periferia a nord di New York.
Il primo film l’hai girato sulla East Coast.
Finito il college, intorno ai 25 anni ho girato Lay Down Tracks insieme a una cara amica, Danielle Lombardi. Mi ci sono voluti due anni. Ci muovevamo a caso fra zone urbane e rurali nel nordest, chiedendoci come volevamo vivere, cosa che ci ha indotto a registrare interviste col microfono e filmare ritratti impressionistici in 16mm di persone che sapevamo conducessero una vita da nomadi. Siamo andate a cercare le donne che compaiono nel film, la camionista e la comandante del battello, e abbiamo inquadrato le nostre domande intorno alle rispettive esperienze di viaggio e di lavoro. La lavorazione e di questo film mi ha fatto molto approfondire l’interesse per filmare le persone ed esplorare la natura del rapporto fra regista e soggetto, percepire che cosa può provocare a livello personale il processo del fare un film e documentare le specificità del luogo e del tempo. Dopo questo film volevo andarmene dalla costa occidentale, e ho cercato un posto al CalArts [California Institute of the Arts, N.d.T.].
Come le persone che hai filmato, anche tu sentivi il bisogno di muoverti, viaggiare verso nuove esperienze. Cosa ti ha convinto a spostarti lì?
Il CalArts mi attirava perché avevo scoperto cineasti che affrontavano la qualità aleatoria e le mitologie del paesaggio americano, come fra gli altri James Benning e Deborah Stratman. Quando sono andata a visitare l’istituto veniva proiettato Bless Their Little Hearts di Billy Woodbury, il cui delicato realismo mi ha profondamente impressionato. Come tutor ho trovato una grande rispondenza in Betzy Bromberg, Lee Anne Schmitt e Thom Andersen, solo per nominarne alcuni. Un vero e proprio elenco di tutti i docenti e compagni di corso che hanno avuto un influsso su di me durante il periodo trascorso al CalArts sarebbe lunghissimo, ma lo scambio ininterrotto che offre questa comunità e che mi tiene sempre ancorata al mondo del cinema non commerciale di Los Angeles è fondamentale, vitale, per il mio essere come regista.
Poco dopo aver cominciato al CalArts sono andata in Suriname con Ben Russell. Lì abbiamo ripreso la serie di performance, ricostruzioni storiche ed eventi estemporanei presentati dalla comunità locale che compongono Tjúba Tén/ The Wet Season. Ben aveva trascorso due anni presso questa comunità saramaccana sette anni prima circa, e la struttura stessa del film aspira a ricreare i successivi gradi di comprensione ed esperienza dei fenomeni.
Hai infine trovato il tuo “soggetto" nel paesaggio della California e nelle persone che vi abitano.
Dopo questo viaggio, infatti, volevo trovare uno spazio nei dintorni affinché potessi prendere familiarità con la California meridionale, essendo acutamente consapevole del mio status transitorio in questa terra. James Benning aveva portato la classe a Castaic Lake prima dell’alba, in modo da poter seguire il corso naturale del torrente fino al bacino di raccolta. Quando con il sole alto siamo riemersi dalla gola e ci si è parata davanti agli occhi tutta la costruzione del lago, sono rimasta scioccata e disorientata. Castaic Lake l’ho realizzato nell’arco di due anni tornando e ritornando a questo bacino artificiale situato ai confini della contea di Los Angeles, un’imponente infrastruttura comunale che comprende parchi ricreativi, nel mentre dalle crepe si infiltra la natura selvaggia. Nello stesso periodo ho finito di girare AM/PM, che è stato anche l’inizio di un lungo periodo di lavoro nel deserto del Mojave.
Ci puoi descrivere il processo del tuo lavoro? Come fai a scoprire luoghi o siti? A volte succede per caso, o li studi su una mappa, oppure ti capita di leggere prima qualcosa al proposito? Vai lì, incontri le persone e fai dei sopralluoghi? Che cosa viene prima? Hai detto che la lavorazione di Castaic Lake è durata due anni: per quanto tempo studi il luogo o parli con le persone? Cominci a filmare quando sei già stata in contatto con loro e le hai conosciute?
Dopo aver finito il CalArts sono andata un po’ alla deriva e ho cominciato a stare per discreti periodi di tempo nel deserto, campeggiando, in cerca di ispirazione. Nei pressi della città mineraria fantasma in cui si svolge AM/PM mi sono imbattuta in un sito archeologico che è attualmente oggetto di contesa. La guida principale del sito ci ha raccontato la parabola della sua vita, che ha toccato varie industrie, quelle che caratterizzano l’uso dei terreni industriali del deserto. All’inizio ho pensato di realizzare un film-saggio sull’uso dei terreni dal punto di vista dell’esperienza di questa persona, ma poi lui mi ha presentato Ren Lallatin, una geologa che fa la volontaria per lo stesso sito. Grazie alle riflessioni di Ren sulla storia geologica del deserto, e in particolare sulla sua scala temporale in rapporto all’esistenza dell’uomo, ho raggiunto una profonda consapevolezza della fragilità della nostra posizione. Mi ha attirato l’appassionata e sfaccettata comprensione che ha Ren del paesaggio desertico e della marginalità delle sue Storie umane e naturali, e così ho cominciato a seguirli in varie visite nel deserto. Nell’arco di questo processo sceglievamo insieme i siti che mettevano in risalto il rapporto di Ren con una varietà di ambienti desertici e le condizioni di solitudine dovute alla precarietà delle loro situazioni. Man mano che passavamo il tempo insieme, ho cominciato a incorporare nelle riprese degli aspetti del nostro rapporto.
In generale a me capita di attraversare periodi di irrequietezza e malessere che suscitano dilemmi sul come vivere, il che mi porta a trascorrere del tempo in contesti naturali che alterano i miei ritmi personali, e anche a cercare persone che conoscano bene queste zone. Le persone con le quali stabilisco un rapporto mi offrono nuove angolazioni, e le loro esperienze toccano tasti che hanno a che fare con il libero arbitrio. Mi attirano le zone al margine, quelle su cui si può concentrare una particolare dedizione, e i luoghi che presentano complessità storiche. La lavorazione di un film può contribuire a far partire alcune interazioni, ma può anche essere messa da parte fino a che io non conquisto una percezione dell’interazione fra persone e luoghi. Soppeso il materiale che ho raccolto e cerco modi per rispondere a ciò di cui manca, oppure a ciò che suscita in forma e contenuto.
Ci sono registi, artisti, scrittori che hanno influenzato il tuo lavoro o che sono oggetto della tu ammirazione? Sono forse coloro che hai citato nella risposta di prima? Ve ne sono altri? Ne puoi parlare?
Al pari di molti artisti ho sempre considerato il mio lavoro come in conversazione con altri, alcuni dei quali ho già citato, ma l’elenco è in continua crescita. Ultimamente, per esempio, traggo ispirazione da artisti e artiste le cui modalità nel trattare la soggettività femminile trovano un parallelo nelle loro decisioni formali, quali la sensibilità del corpo e la volontà di affrontare le psicologie collettive nei film di Chick Strand. Un altro oggetto di riflessione sono i workshop, gli scritti e le costruzioni di danza di Simone Forti, le cui strategie di performance, molto istruttive, aspirano a una forma incarnata di politica personale. Per quanto riguarda i modi in cui capisco come un film come Sanctuary Station incorpori un elemento di autoritratto psicologico, mi viene in mente la collisione delle figure che compongono il romanzo di Elizabeth Hardwick Notti insonni, in cui la descrizione del sé prende forma attraverso la delineazione di rapporti intensi e icone personali, osservazioni del sé e dell'altro che cambiano nel tempo.
Nel 1914 Ludwig Wittgenstein si fa costruire una capanna in Norvegia, isolata da tutto, su un fiordo, a due passi da un lago. L’unico modo per muoversi da lì è una canoa che egli stesso si è costruito. All’epoca ha 25 anni e il desiderio di restare il più lontano possibile dagli esseri umani. Si tratta di una capanna in legno, otto metri per sette, un poco più grande di quella che Thoreau si costruisce a due passi da Walden Pond, Vermont, ricavandone i materiali da un’altra abbandonata, sul bordo di un altro lago. Lì scriverà Walden.
A differenza di una vera abitazione, la capanna è il regno dell’effimero, del provvisorio: per un certo tempo della vita, ci siamo transitati. Spazio del temporaneo e di isolamento dalla società; rifugio o riparo. Sono simili ai luoghi in cui passano un segmento della loro vita le persone filmate da Brigid McCaffrey: la geologa Ren Lallatin in Paradise Spring, in movimento lungo il Mojave Desert; la poetessa Mary in Sanctuary Station isolata nella foresta di Mendocino County, dove sono attivi i giovani difensori della foresta che McCaffrey ha filmato; o il giovane Azar Singh, rifugiato negli spazi di una miniera abbandonata, dopo aver lasciato tutto, in AM/PM. Sono persone che Brigid McCaffrey ha conosciuto muovendosi lungo il territorio della California: sono i luoghi che ha scelto di filmare, insieme alle persone che vi vivono. Prima di arrivare a Ovest, aveva filmato altre persone sulla costa Est, toccate dalla medesima irrequietezza, sempre in movimento. Il suo primo film si intitola Lay Down Tracks: una sorta di prolungamento di Route One USA (Robert Kramer). Anzi, un piccolo gioiello influenzato dai kinocs di Vertov: il montaggio della vita stessa.
(Non trovo nulla di più pertinente, per descrivere il suo lavoro, il suo modo di vivere, che quel passo che apre il capitolo “Sulla superiorità della letteratura anglo-americana di Gilles Deleuze: «Partire, evadere, significa tracciare una linea. (…) Si scoprono dei mondi solo in una lunga fuga spezzata. La letteratura anglo-americana mostra in continuazione queste rotture, questi personaggi che creano la loro linea di fuga, che creano attraverso linee di fuga».)
Arte del ritratto, studio del paesaggio. Irrequietezza e movimento. I suoi magnifici film si muovono su queste coordinate. Il paesaggio viene attraversato, studiato, perlustrato con un movimento verso l’interno: è un ambiente che accoglie persone e in grado di far emergere diversi rapporti con il tempo: quello della natura e quello della cultura (c’è il tempo geologico, stratificato del deserto, e quello più fugace delle persone che vi hanno trovato rifugio; c’è il tempo secolare degli alberi della foresta e quello della poesia che si forma sul foglio bianco; o il tempo della costruzione di un lago artificiale e quello del tempo che vi si passa in un momento di svago, come nel magnifico Castaic Lake). Il paesaggio non è mai osservato in maniera disinteressata: magari per cogliervi la bella immagine. È una zona geologica, temporale e magnetica. Vi cogliamo i racconti di chi li abita: ricordi, emozioni, saperi. Ritroviamo tracce sedimentate, come le rocce vulcaniche che Ren incontra in un sito del deserto, e che le fanno ipotizzare siano il risultato di un’eruzione vulcanica sottomarina, chissà quante ere fa.
Il paesaggio fa emergere elementi che ci intrigano. Ci mobilita, insomma. Ci sfida a percorrerlo. Ed è quello che fa Brigid McCaffrey con i suoi film. Che si muovono in perfetta continuità con il processo della vita stessa. Ne sono parte. Per farlo ci vuole tempo e pazienza: «Ognuno sa che, per vedere attraverso un microscopio e un telescopio e per vedere un paesaggio come lo vede un geologo c’è bisogno di un tirocinio. L’idea che la percezione estetica sia qualcosa che si fa a tempo perso è una delle ragioni dello stato arretrato delle arti fra noi».
La frase è del filosofo John Dewey, nel suo L’Arte come esperienza. È un buon modo per definire i suoi film.
Rinaldo Censi
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